il TD Bank Garden di Boston

BOSTON – Pensieri sparsi per davvero questa volta. perché il tempo è tiranno, la stanchezza pure, e non ci sentiamo lucidi come nei giorni migliori (cioè, quando mai?). Forse c’entra anche la tristezza sottile e insistente che ci perseguita dalla Selection Sunday e sembra non volersene andare. Tutte queste partite, tutte queste chiacchiere, tutte queste ammucchiate sul campo, tutta questa pallacanestro a grandi bicchieroni. Eppure non riusciamo a goderci lo spettacolo a fondo, perché la scomparsa di un compagno di vita come American Superbasket ha lasciato un vuoto incolmabile. Non sappiamo se e quando ASB tornerà. Sappiamo però che ci ha accompagnato da sempre, con perizia e classe, senza mai invecchiare, nelle emozioni di questo pazzo mese. Anche e soprattutto quando ne eravamo assetati lettori e frequentavamo le scuole medie, in questo rigoroso ordine. Ovvero, ben prima di il nostro nome finisse su quelle pagine, che è poi la cosa più insignificante. Tutto questo ci tenevamo a dirlo, e non può essere un dettaglio. Dovunque tu sia, ci manchi tantissimo.

Dicono che Boston sia la città più europea negli Stati Uniti. Prima di oggi non avevano ancora capito cosa significasse, anche perché la stessa cosa la dicono anche di San Francisco. Però ora un indizio ce l’abbiamo. Dal sedile dell’aereo all’ingresso del TD Banknorth Garden 17 minuti netti. 2 per scendere dall’aereo, 4 per uscire dall’aeroporto, 4 per capire dove fossero i taxi e 7 per passare sotto al tunnel e arrivare all’ingresso con il suddetto taxi. Come andare al Paladozza dalla stazione FS di Bologna Centrale. Con lo stesso minutaggio, a Chicago si arriva forse forse al nastro dei bagagli. Col fiatone.

Appena entrati nell’arena, subito occhiata furtiva all’allenamento di Wisconsin. Curioso che, esattamente un anno fa, fossimo a New Orleans, e ci fossero ancora i Badgers. Sempre alla Sweet 16, sempre con Bo Ryan, pensierosissimo, che scava una buca attorno al cerchio di metacampo, come Archimede in procinto di inventare, mentre i suoi Badgers tirano e tirano e tirano ancora. E’ l’ennesima chance per dare una svolta a una carriera già ottima, ma ancora un po’ monca di zampate importanti. Il più gavettaro degli allenatori NCAA, che si è sciroppato anni e anni di Divison III prima di salire ai piani alti, lo sa bene. Il tempo stringe,  i treni non sempre ripassano, anche se il suo sistema sembra in grado di portare la squadra al torneo con qualsiasi individualità abbia a disposizione.  Syracuse è forte, molto più forte di quanto alcuni abbiano realizzato. Non avrà Melo, ma ha la difesa più indecifrabile dell’intera NCAA, e sa adattarsi a tutti i tipi di partita. Si prospetta una gara d’altri tempi, calibrata sui dettagli. Servirà una grande notte di tiro ai Badgers, quella che nelle occasioni importanti è sempre mancata.

Strano derby quello tra Cincinnati e Columbus, sede di Ohio State. Ovvero, due città non esattamente accoglienti (il che non significa che non siano interessanti, questo no!). Simili per segregazione, tensioni e grigiore, fisico e anche un po’ esistenziale. Eppure, nonostante le somiglianze storiche e la scarsa distanza – due ore scarse – i due atenei vivono in due mondi diversi. I Buckeyes hanno tutte le loro belle rivalità footballistiche da Big Ten a cui pensare, Michigan su tutti. Mentre i Bearcats…vabbeh, non stiamo nemmeno a ricordarlo. Ogni anno preparano pistole, asce e coltelli a serramanico per il Cross-town shootout contro Xavier University, a poche miglia dal loro campus. Una rivalità da sempre accesa, che quest’anno è degenerata nella famosa rissa pre-natalizia che ha portato uno spiegamento di critiche e condanne etiche mai visto prima. Un episodio che però Mick Cronin, coach di Cincy, in segreto continuerà a benedire, vista la veemente reazione della sua squadra, che ha raddrizzato una stagione che stava andando davvero male. E così, eccoci qui, con un posto in Elite Eight in palio. Ohio State favorita, Cincinnati epitome della squadra scrappy, rognosa, pronta a creare problemi con la propria fisicità. Mai come in questo caso una battaglia che incarna lo stile pragmatico, spigoloso, delle due città. Poco accoglienti, appunto, ma non per questo non meritevoli di una fetta di gloria.

coach Mick Cronin di Cincy

Infine, assegnazione premi. Nobel della giornata a un cronista di Boston. Prima domanda a Mick Cronin, a bruciapelo. «Cosa provi a giocare in una città ricca di tradizione come Boston?». Chiaramente un chiodo fisso nella mente del coach, che è nativo di Cincinnati, è un passo da un traguardo storico della sua carriera, e con Boston non c’entra assolutamente nulla. Va bene trovare dei temi per i giornali locali, ma così è quasi una farsa. Il bello è che Cronin ha pure risposto seriamente, citando pure il classico cielo soleggiato e sereno della primavera del Massachusetts (ma quando mai?). Chi prova a fare la stessa domanda a Obradovic alla prossima Final Four di Eurolega? Premio Pulitzer a Jim Boeheim, uno dei pochissimi allenatori americani che sembra sempre deridere con disprezzo qualsiasi giornalista, a prescindere dalla domanda. Al commento «Wisconsin predilige giocare a uomo, voi giocate sempre a zona. Cosa ne pensi del fatto che sia voi che i Badgers, pur giocando in modi diversi, avete entrambi grande successo? E’ una cosa che apprezzi?». Il coach ha replicato, ghignando senza ridere. «Nel basket si può avere successo con varie strategie». Trascrizione ufficiale della domanda: righe 9. Trascrizione della risposta: righe 3. A pensarci bene, anche questa domanda poteva candidarsi al Nobel di giornata. Per fortuna che ora si gioca, va là.