Pensieri e parole da Lebanon, 22 miglia a nord di Indianapolis. Siamo in una suite esclusiva dell’Econolodge, catena di alberghi di lusso che colonizzano le uscite autostradali di tutti gli Stati Uniti, pronte ad accogliere i relitti umani in balia dell’asfalto. Nessuno, in questo momento, rappresenta meglio la categoria. La finale è finita da qualche ora, One Shining Moment è una melodia che non riusciamo a scacciare. Avremmo voluto che fossero i Badgers a celebrarla, per una serie di motivi. Ma dopo una serata di basket di questo tipo, possiamo solo rendere grazie. Non ce la dimenticheremo facilmente.

LACRIME – Copioni triti e ritriti, eppure sempre efficaci. I vincitori esultano e sprecano sorrisi. Gli sconfitti si chiudono in un angolo, testa bassa e lacrime, di fronte all’inevitabile. Nel college basket, poi, è ancora più crudele. Al quarto anno sei fuori, non ci sono prove d’appello. Perso il treno, sai già che non ripasserà. Doveva pensarla più o meno così Frank Kaminsky, accasciato sul parquet mentre partivano coriandoli e ammenicoli vari. Sicuramente era del pensiero anche Sam Dekker.

Sam Dekker, inconsolabile sconfitto

La faccia pulita più pulita che possa esistere. Occhi gonfi, nessuna forza per rispondere a brillanti quesiti del tipocome ti senti in questo momento? a cui i compagni stavano venendo sottoposti con fare militaresco. Almeno questo non è un terremoto o un alluvione. Ha provato a tirarlo su di morale Jeff Goodman, l’insider di ESPN, quello con le fonti più feconde di tutto il panorama giornalistico collegiale. Ma anche a lui è andata male. L’addetto stampa di Wisconsin, terminato il tempo per le interviste, invita ad uscire. Qualcuno va da Dekker, lo saluta. E allora ci facciamo coraggio anche noi. Nulla di complicato, solo un thanks Sam, it’s been great. Ci guarda, tira una pacca sulle spalle, dice di apprezzare il pensiero. Non abbiamo virgolettati – e anche se li avessimo non cambierebbe nulla visto che in Italia la NCAA non la considera nessuno – ma almeno abbiamo la coscienza a posto. Quel ringraziamento, da parte nostra, era davvero sentito.

FATTORE K – Si è parlato, e si parlerà, delle prodezze di Tyus Jones e Grayson Allen. Dei guizzi di Okafor, dei balzi di Justise Winslow. Ma questa vittoria è anche, e soprattutto, la vittoria di Mike Krzyzewski. La quinta, con un gruppo ancora diverso. In passato c’erano veterani, più o meno talentuosi, alla guida di gruppi costruiti nel tempo. Da qualche anno, ha deciso anche lui di puntare sulle forze fresche. E’ andata male negli ultimi 2-3 anni, poi è arrivata la pesca giusta. Una stella – Okafor – con due giocatori solidissimi, che forse stella potranno diventarlo – Winslow e Jones. Ma dietro a tutto c’è sempre lui. Che magari non sapeva il nome di Papaloukas, e avrà quell’aria di condiscendenza che tutti i santoni americani sviluppano negli anni, ma sa insegnare basket come pochi altri sanno fare. E basket a tutti i livelli: attacco, difesa, personalità, atteggiamento. Questa non era solo una squadra di talenti che giocavano assieme. Era una squadra di basket vera, oliata davanti e dietro, capace di reagire alle difficoltà. E con il destino dalla propria parte, alleato irrinunciabile per arrivare a questi livelli. La lezione più sonora Calipari l’ha presa da lui, seppure a distanza.

INDIANAPOLIS – Difficile pensare a una città migliore per un evento di questo genere. Spoglia, essenziale, funzionale. Talmente vuota da prestarsi a essere conquistata da centinaia di migliaia di appassionati per un lungo weekend di Aprile: i 70mila entrati allo stadio, più tutti quelli rimasti fuori e arrivati solo per gli allenamenti. La nostra esperienza precedente, a livello di Final Four, era stata Houston, e la differenza si è fatta sentire. In Texas era tutto sfilacciato, con lo stadio fuori dal centro, i tifosi sparpagliati, i collegamenti inesistenti.

birre prepartita

C’erano anche Butler e VCU, il che non aiutava certo l’atmosfera. Per le quattro vie di downtown Indianapolis, invece, tutto era a portata di mano. Al punto che – cosa rarissima per una città americana – sono stati i pedoni a farla da padrone, decidendo loro quando attraversare, quando rispettare i semafori, quando lasciar passare le macchine. La NCAA, che proprio qui ha la sede, ci ha messo del suo. Tre palchi fuori dal Lucas Oil Stadium, bancarelle a ogni angolo, e le classiche vie del centro ribattezzate con i nomi delle squadre. Consuetudine antica, come insegna il maestro Roberto Gotta, che però fa sempre sorridere. Al resto, ci ha pensato la città stessa, con i suoi capannoni riadattati a birrerie artigianali, i bar, le steakhouse, gli spiazzi post industriali a ridosso degli svincoli dell’autostrada.

I tifosi si impadroniscono di downtown

Quelli che in una giornata di novembre sembrano il prologo dell’apocalisse, e che invece diventano il luogo di ritrovo ideale per arrostire maialini in attesa della partita. Dopo tutto, il tifoso di NCAA si accontenta di poco.

PICCIONAIA – Ha suscitato i soliti sorrisi la foto panoramica del Lucas Oil Stadium scattata dal nostro box stampa. Su Twitter l’abbiamo chiamata “ampie vedute”, e non ci si mette molto a capirne il motivo. Il campo, dal sesto anello di uno stadio di football, era minuscolo. I giocatori si distinguevano a malapena.

ampie vedute

E il sesto senso per giudicare intuitivamente una chiamata arbitrale – a torto o a ragione – veniva completamente a mancare, togliendo metà del divertimento (scherziamo, ma non troppo. Siamo pur sempre italiani, e pur ex arbitri). La domanda, ovviamente, è: vale la pena tutto questo per vedere una partita in quelle condizioni? Non era meglio vederla in tv? Varie risposte sono possibili. In primis, l’eccellente birra IPA di Tow Yard, uno di quei capannoni che popolano il deserto urbano a pochi metri dallo stadio, non sarebbe stata altrettanto buona se sorseggiata per via telematica. Secondo, la partita si vedeva. Malino, ma si vedeva. E quell’angolo così inusuale, per quanto poco funzionale alla pallacanestro aveva il suo perchè. Soprattutto se, dietro alla lastra di vetro che isola il box, ci sono altri cento giornalisti immersi nello stesso acquario, anche loro alle prese con il fascino del panorama. E così, lassù, si è creato un ambiente intimo, separato e al tempo stesso connesso al resto dello stadio. La partita era accompagnata dalla radiocronaca, secondo una combinazione assolutamente unica. I rumori arrivavano di sbieco. E il brivido della dimensione ultraterrena contribuiva a rendere l’esperienza ancora più unica. Insomma: preferiamo il bordocampo, oppure il terzo anello di una normale arena di basket. Ma se la Final Four deve essere un evento monumentale, dove il colpo d’occhio all’inno nazionale vale più della qualità di fruizione del resto della partita, accettiamo di buon grado pure questo. Rimaniamo dell’idea che il basket non sia uno sport da giocare in posti del genere. Ma per un fine settimana all’anno, l’eccezione è ben accetta.

RITI & MITI 1– E’ stata anche una settimana di luoghi comuni, sentenze, encicliche. Come di costume quando una manifestazione importante arriva all’ultimo atto, schizzando improvvisamente in cima all’agenda di chi, per mesi, aveva altre cose da seguire.  Popolare l’argomento secondo cui il college basket sarebbe in caduta libera. Si lamenta perdita di contenuti tecnici, impoverimento della tattica, rallentamento eccessivo dei ritmi. Tutto molto bello, come direbbe una voce a noi tutti nota, se non fosse che noi, nel nostro innato buonismo, abbiamo visto un torneo NCAA ricco di spunti e stili diversi, con partite tutt’altro che scadenti. Sarà stata la mancanza di una squadra di miracolati (politicamente scorretto per l’abusato Cinderella), sarà che dalle Sweet 16 in poi ogni squadra aveva punti di forza tutti suoi, garantendo varietà ancora prima che spettacolo. Insomma, la pallacanestro è stata ampiamente decente, con i picchi toccati dall’attacco dei Badgers e dalla difesa di Duke nelle semifinali di sabato. E pure gesti atletici non indifferenti, anche da parte di quei  bianchi che, in linea con lo stereotipo, avrebbero dovuto solo tirare e provare a picchiare un po’. Spiegatelo a Grayson Allen, per esempio.

RITI & MITI 2 – Altra tesi diffusa, peraltro magistralmente smontata da Mark Titus su Grantland, è l’idea che il college basketball sia stato rovinato dagli one-and-done, i liceali parcheggiati per un anno in attesa di saltare in NBA. Un’argomentazione che, per certe pieghe capziose, ricorda un po’ il #TroppiStranieri cavalcato ultimamente da certi esponenti del basket italiano. Primo, nessuno obbliga i coach di college a frequentare circuiti AAU e allenamenti del McDonald’s All American per accaparrarsi i talentini a cinque stelle. E infatti, pochissimi lo fanno, continuando ad allenare e a selezionare gli atleti con gli stessi criteri usati un decennio fa. Secondo, è tutto da capire come il transito al college di giocatori che con altre regole non ci sarebbero mai venuti possa essere nocivo alla qualità della pallacanestro collegiale. Se proprio, gli one-and-done hanno alzato il livello, portando picchi di talento e atletismo che hanno elevato il tasso di competitività. E’ una regola ipocrita? Forse. Fomenta la mercificazione dei giocatori, portando le università ancora più lontane dal loro obiettivo educativo? Probabile. Attenta all’identità secolare di certi atenei? Ma mettiamo pure di sì. Rimane il fatto che, anche senza queste meteore sparate verso una vita miliardaria, le contraddizioni della NCAA rimangono. E i tifosi, quando la squadra vince, all’arena ci vanno lo stesso, a prescindere da quanti freshmen ci siano nella loro squadra. Un po’ come fecero a Cantù con il mitico sestetto di ammerigani mercenari del 2001-02, quando la minaccia alle radici della  storia cestistica brianzola passarono in secondo piano rispetto a una squadra che passò dalla lotta salvezza a quella per lo scudetto. Misteri, davvero.

Per il college basket, arrivederci a Novembre. Intanto, per chi ha seguito, letto, twittato, commentato, con gli occhi gonfi di sonno: un grazie enorme. Come quello da tributare ai Badgers.

twitter: @andreabeltrama