Napier ha riaperto un dibattito insoluto (credit Ronald Martinez Getty Images)

Napier ha riaperto un dibattito insoluto (credit Ronald Martinez Getty Images)

“ Ci sono delle notti in cui mi sveglio affamato perchè non ho abbastanza denaro per mangiare. A volte i soldi sono necessari in questo senso. Non sto parlando di pagare centinaia migliaia di dollari i ragazzi per giocare, visto che nella maggior parte dei casi non sarebbero in grado di gestirsi con tutto quel denaro. Io mi sento uno studente-atleta. Tuttavia ci sono delle sere in cui non posso mangiare, e devo comunque giocare al massimo delle mie possibilità.”

Le dichiarazioni dell’MVP dell’ultima final four Shabazz Napier hanno riaperto un dibattito spinoso, che tiene banco ormai da diverso tempo nel mondo dello sport americano, quello relativo allo status amatoriale degli atleti collegiali. Il giro d’affari milionario che ruota attorno ai principali sport universitari risulta assolutamente distonico rispetto a situazioni di indigenza come quella descritta da Napier, ed in passato dall’ex giocatore di Baylor ed ora di Oklahoma City Perry Jones.

Ad aggiungere  ulteriore benzina sul fuoco della polemica vi sono stati due eventi particolarmente rilevanti legati a questo tema, a partire dalla class action intrapresa dall’avvocato antitrust Jeffrey Kessler nei confronti dell’NCAA ed in particolare di cinque delle maggiori conference (ACC, Big Ten, Big 12, Pac 12 e SEC). Scopo della causa è quello di prevenire ulteriori azioni dell’NCAA atte a limitare l’ammontare degli aiuti economici garantiti agli atleti. Nello specifico mira a garantire la possibilità degli stessi di essere pagati. In secondo luogo vi sono state le dichiarazioni di Kareem Abdul-Jabbar durante la trasmissione della CNN Crossfire, dove la leggenda di UCLA, Lakers e Bucks ha dichiarato riferendosi allo sport collegiale:

“…Si tratta di un settore che vale 6 miliardi di dollari, lo scorso anno la CBS e la TBS si sono divise un accordo da un miliardo di dollari per la March Madness. Viene generata una gran quantità di denaro, e le persone responsabili di questa ricchezza non ne sono partecipi ne beneficiano appieno dell’istruzione universitaria…”.

L’estratto dell’intervista è nel video sottostante:

 

In caso di vittoria della causa da parte di Kessler e dei suoi assistiti si potrebbero aprire scenari rivoluzionari per il modello stesso di gestione dello sport collegiale americano. La perdita dello stato amatoriale da parte degli atleti infatti altererebbe la natura di organizzazioni no profit delle istituzioni universitarie, e la conseguente perdita di centinaia di milioni di dollari di donazioni alle stesse, che valgono più del doppio dei ricavi derivanti dai diritti televisivi. (Di seguito il video ormai ogni anno virale “one shining moment”, che riassume i più bei momenti dell’annata di college basket):

Il cambiamento del modello di gestione impatterebbe anche e soprattutto sugli “sport minori”  che fanno parte del comparto atletico di ogni ateneo, il cui sostentamento è legato a doppio filo dai ricavi provenienti dal basket e dal football. Inoltre questo aprirebbe il fianco a potenziali iniziative legali da parte di tutti gli studenti atleti che non fossero beneficiari di tali emolumenti, secondo il principio di equità di genere sancito dal TITLE IX”, una legge federale USA.

Appare comunque palese che il sistema necessiti di una riforma sostanziale, in quanto di fatto crea iniquità e sfruttamento, oltre che potenziali focolai di illegalità. Risulta infatti palese la disparità tra i ricavi derivanti da football e pallacanestro maschile per gli atenei, tra gli stipendi dei coach a sei zeri, e le limitanti condizioni e i controlli a cui sono sottoposti gli atleti. Un paradosso di difficile soluzione.

L’NCAA già prevede un fondo per coprire gli acquisti di abbigliamento, i viaggi di emergenza e le spese mediche degli studenti atleti in difficoltà. Una soluzione già proposta da Michael Wilbon, editorialista di ESPN, potrebbe essere quella di utilizzare questo fondo per veicolare ulteriore denaro destinato a spese di ordinaria amministrazione, che sono solitamente coperte dai normali studenti attraverso lavori saltuari, impossibili da sostenere per gli atleti collegiali.

Un’ulteriore idea deriva dal liberalizzare l’imprenditorialità e la possibilità di accesso dei ragazzi a fonti esterne, che sono comunque veicolate anche ora, spesso illegalmente, dai cosiddetti “boosters” . Si tratta solitamente di ex alunni facoltosi che garantiscono generose donazioni direttamente ai migliori prospetti da reclutare, in un mercato sommerso che raggiunse il suo culmine nella metà degli anni ’80 e che portò all’annientamento del programma atletico della Southern Methodist University, una potenza del football al tempo (per approfondimenti si trova su youtube un documentario della serie Espn 30 for 30 chiamato “Pony Excess” a riguardo).

Garantire agli studenti atleti di ricavare dei soldi dalla propria immagine, rendendo pubbliche, legali e regolamentate eventuali sponsorizzazioni forse aiuterebbe l’intero sistema ad autosostenersi, limando quelle disparità che al momento lo stanno inevitabilmente guidando verso il tracollo.

Da trattare a parte il capitolo della regola dell’”one and done”, il limite di età per l’ingresso nella lega a 19 anni, che di fatto garantisce alle franchigie NBA un anno di allenamenti gratuiti per i migliori prospetti, che senza tale limitazione farebbero immediatamente il salto del fossato, a volte senza la necessaria esperienza tecnica ed umana. In questo modo la lega professionistica più importante del mondo ribalta i propri rischi sul mondo universitario, che deve per forza trovare delle contromisure per tutelare la propria integrità e autoregolarsi.

In questo senso forse sarebbe utile abbassare quel velo di ipocrisia che ancora ammanta lo sport universitario a stelle e strisce, e forse la causa di Kessler potrà dare lo scossone di avvio ad un processo di ammodernamento quanto mai imprescindibile.