È nato ad Atlanta, ma non sappiamo se tifa per gli Hawks. Pat Conroy, classe 1945, è uno scrittore di fama mondiale. Fra i suoi best seller Beach Music, The Great Santini, il forte e struggente The Prince of Tides, uscito nel 1986 e tradotto in italiano come Il principe delle maree (edito da Bompiani).

Un libro da cui fu tratta una altrettanto intensa pellicola dall’omonimo titolo per la regia di Barbra Streisand, che ne era anche interprete, con Nick Nolte quale protagonista maschile (visto in un altro film, Blue Chips-Basta vincere, nei panni di un allenatore di basket tormentato: con lui, a recitare, Bob Cousy, Shaquille O’Neal e Anfernee Penny Hardaway). Per Il principe delle maree Conroy rischiò seriamente di vincere il Premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale che aveva adattata dal suo stesso romanzo.

Perché stiamo parlando di Pat Conroy? Perché Pat, primogenito di sette figli, insegnante ribelle e anticonvenzionale prima di divenire autore di successo e e di culto, è l’autore di uno dei più bei libri che trattino di basket: La mia stagione no (524 pp., Bompiani, titolo originale My Losing Season, 2002).

Stagione 1966-67, Pat Conroy è il capitano di Varsity, Citadel, Charleston, South Carolina. È l’ultimo anno della sua carriera al College – non è una fiction, si badi bene – e per Pat esso è un passaggio fondamentale nella sua già aspra esistenza: una dura disciplina militare, il padre brutale e violento, un allenatore dispotico e insensibile. Sono, questi, i tre elementi della storia, che si configura e dipana come un vero romanzo di formazione, il basket come metafora, la vita come una lotta, il basket come salvezza.

Il libro è dedicato dall’autore ai compagni della squadra di pallacanestro della Citadel, i Bulldogs. “È stato un onore per me scendere in campo insieme con voi, ragazzi”. Dan Mohr, Jim Halpin, John DeBrosse, Doug Bridges, Dave Bornhorst, Robert Cauthen, Bill Zynsky, Alan Kroboth, Tee Hooper, Gregory Connor, Brian Kennedy, i nomi indelebili nella memoria.

Ero nato per essere un playmaker, ma non uno di quelli molto bravi. C’è stato un periodo nella mia vita, in cui camminavo per il mondo noto a me e ad altri come un atleta. […] Quel che possedevo infatti erano una superba caparbia, una feroce competitività e il desiderio ardente di essere un grande giocatore della Southern Conference […] Per anni mi sarei imposto di eseguire trecento tiri in sospensione al giorno per migliorare le mie scarse qualità di tiratore da fuori. In vita mia non ho mai finito un allenamento senza mettere dentro l’ultimo tiro. Non era superstizione: era disciplina, questa”. Southern Conference: Florida State, Auburn, West Virginia, Virginia Tech, Clemson…

The Citadel, l’accademia militare di Charleston, una delle più famose e severe istituzioni militari del mondo. Forse per questo (conoscete il plebe system?), forse a causa del coach prepotente, forse per via del padre duramente autoritario, Pat è divenuto un ribelle, ossia un insegnante controcorrente prima, un finissimo e sensibilissimo narratore poi. Il basket, il suo riscatto dal ricatto della violenza e dalle secche dell’odio e dell’abbandono. Anche in una stagione no, una stagione perdente, come quella del 1966-67, poco prima del 1968 che avrebbe incendiato il pianeta con il suo rifiuto dell’ordine costituito.

Le descrizioni cestistiche sono accurate, perfette, in quanto vissute. La lettura emoziona, cattura, affascina. “DeBrosse mise otto tiri in sospensione di fila da dietro la lunetta, e io ammiravo la perfezione del suo gesto e la scioltezza del rilascio. La retina frusciava e sputava un pallone dopo l’altro. È il suono più piacevole, nel mondo dei cestisti”.

Ma non c’è solo il bucolico-agonistico della palla a spicchi nelle pagine che corrono, c’è pure la rievocazione del passato più antico e buio… “Fu a bordo di quell’auto, fu quella sera, che mio padre mi fece a pezzi. Mi picchiò di santa ragione, come non mi aveva mai picchiato nella mia pur tartassata infanzia […] mi diede un pugno così forte sulla fronte che mi parve che la testa mi schizzasse via dal finestrino. Poi mi colpì ancora in pieno viso, e prese a menar giù botte per tutto il corpo. Invano cercavo di ripararmi […] Finalmente mise in moto la macchina e tornammo a casa, ad Annandale. Io rimasi a bordo, raggomitolato su me stesso, finché mia madre non venne a prelevarmi. Dovette staccarmi con forza le braccia e le mani dalla testa, come si toglie la buccia da un frutto. Ero isterico, quando udii la sua voce; e lei si mise a strillare quando mi vide in faccia. Non mi permise di andare a scuola per diversi giorni. Non volle che mi vedessero i miei fratelli. Mangiavo in camera mia, mi facevo mandare i compiti e mi chiedevo se mai un figlio avesse odiato il padre come io odiavo il mio”.

Difficile non essere travolti, non essere coinvolti dal racconto. Non sono certo finiti i momenti difficili. Per esempio, il Coach… “Un fuoco covava sotto la cenere, nell’animo di Mel Thompson. Era il tipo d’uomo che, a scannarlo, ti saresti aspettato di veder sgorgare lava anziché sangue. Non aveva nulla di tenero, il mio allenatore. Lo studiai a fondo, da vicino, e arrivai a conoscerlo solo esternamente, come una maschera, come un muro di pietre, una sfinge, un vaso vuoto ma con dei passaggi segreti. Cercavo indizi che elucidassero il suo carattere, ma i graffiti tracciati su quel muro di granito erano scritti in una lingua che neppure lui parlava. Mel Thompson è l’insolubile enigma della stele di Rosetta di questo libro”. Che stile! Che magistrale perizia!

Il basket assurge a strumento di comprensione del mondo, affermazione di sé, i giorni da costruire con la forza e la spinta di un contropiede, insieme con gli altri, in una logica finalmente di solidarietà empatica, panica. “Quella sera Tee Hooper giocò come il dio del fuoco e i suoi occhi rivelavano una sorta di invasamento, quasi una pazzia scatenata. Come si dice nella pallacanestro, aveva la mano torrida, e i playmaker sono gli archiatri di corte in grado di diagnosticare, meglio di chiunque altro, questa febbrile ma volatile patologia. Nel nostro sorprendente sport, selvaggio nella sua essenziale bellezza, Tee Hooper faceva a pezzi la squadra degli Indians e infilò 7 canestri consecutivi. Lui era rovente, e io alimentavo il suo fuoco passandogli la palla”.

Un capitolo più sorprendente dell’altro, un lungo itinerario, costellato di tappe non sempre liete, alla maturità e alla libertà. Gonzaga High School, Beaufort High School, Old Dominion, il Tampa Invitational, i Columbia Lions, i Furman Paladins, l’amore, Morire di fame in Utopia… Non possiamo certo riprodurre tutto il libro, che invitiamo i lettori di quest’articolo a leggere – sarà un esercizio appagante –, ma ci piace chiudere con quest’affermazione-esortazione: “… la cosa più importante è che la mia squadra mi ha insegnato ad accettare il destino con intrepida risolutezza, e questo dico a tutti voi e ci credo con ogni fibra del mio animo, della mia umanità: mi iscrissi al college giusto, per giocare a pallacanestro con i compagni giusti, e nacqui per essere allenato da Mel Thompson e per apprendere ogni cosa sulla vita e sulla sconfitta e su tutto il resto, mentre arrancavamo e avanzavamo zoppicanti, barcollando verso il mese di marzo, affratellati dalla sconfitta e, quel che più conta, uniti per sempre da una stagione no”.

Grandissimo Conroy. Quel che poi ha saputo divenire e fare è alla vista di tutti noi. Chi non ha mai vissuto una stagione no, nella pallacanestro, nello svolgersi del proprio vivere? Ciò che ci ha reso, che ci rende più forti.

ALBERTO FIGLIOLIA