Scorrendo i vostri commenti e facendo la debita tara sulla montagna di spam (leggi stucchevole, imperterrita, indefessa, continua al di là di ogni »perseverare diabolicum« diatriba sull’NBA che anch’io, come alcuni commentatori, non guardo perché semplicemente non me ne frega un tubo) ho trovato una piccola perla che mi permette anche di puntualizzare meglio il mio pensiero.

Parlo del tema della nuova moda di tralasciare nel settore giovanile tutto quello che sa di tattica, cominciando dai blocchi. In sé la filosofia che sottende a questo approccio mi sembra corretta. L’idea sarebbe quella che bisogna imparare prima di tutto la tecnica di base, sia in attacco che in difesa (anche se, e non è un distinguo da poco, in Jugoslavia non si parlava mai di “tecnica” difensiva, se non nei suoi aspetti base – bilanciamento del corpo, equilibrio e tecnica di esecuzione dei passi di scivolamento -, ma di “tattica individuale” difensiva), e poi costruire su di essa la tattica, sia individuale che poi di squadra. Per esempio bisogna imparare l’ 1 contro 1, che è la base del basket, perché solo dal successo dell’ 1 contro 1 possono nascere i normali sviluppi del gioco, taglio e scarico al tagliante, sviluppo di un gioco a due o a tre eccetera, e dall’altra parte bisogna responsabilizzare il difensore affinché si renda conto che il compito di marcare l’avversario che gli sta davanti è totalmente suo e che se quello segna, la colpa è sua. E infatti gli aiuti non per niente si chiamano così, perché trattasi di movimenti nei quali si va in soccorso di un compagno in difficoltà. Che se però non fosse in difficoltà, non sarebbe necessario aiutare e tutta la squadra ne beneficerebbe.

L’idea in sé, dunque, presa astrattamente, non si può discutere. Il problema è però che non siamo nel campo dell’astratto e che si ha a che fare con ragazzi in carne e ossa. Parto da lontano raccontando un aneddoto di vita vissuta. Eravamo nel ’70, io avevo 20 anni e da un anno mezzo allenavo i ragazzi e le ragazze del mio paese delle annate ’55 e ’56 con qualche ’57. Evidentemente non facevo male, perché il nostro Grande Capo, il Presidente della mia società nonché straordinariamente influente personalità della minoranza slovena sia in campo economico che politico (Egon Kraus, suo figlio, appunto uno dei miei primi giocatori, è ora Assessore alle attività produttive del Comune di Trieste), riuscì a convincere a venire a fare uno stage di una settimana a Opicina, con l’intento di fare un clinic per i ragazzi, ma soprattutto perché io vedessi come si fa sul serio e imparassi, nientemeno che il professor Milutin “Mik” Pavlović che era intanto il Preside della Facoltà di pallacanestro all’ Istituto superiore di educazione fisica di Lubiana, l’ISEF slovena insomma, nonché ex giocatore, primo allenatore praticamente di tutti i giocatori sloveni dell’Olimpija dell’epoca nonché a suo tempo anche coach della squadra di Serie A jugoslava. Un mammasantissima, insomma, ascoltato e apprezzato in tutta Jugoslavia. A parte il fatto che la Super Autorità si presentò come un signore estremamente cortese, gentile e simpatico senza il minimo di puzza sotto il naso (si percepiva a pelle che lo faceva per passione) e che da allora siamo rimasti in rapporti estremamente cordiali e di rispetto reciproco, cosa di cui mi vanto, fui colpito da una cosa che fece immediatamente, al primo allenamento. Dopo il riscaldamento con ripassata di fondamentali divise i ragazzi in gruppi di tre e insegnò loro un gioco a tre abbastanza semplice che prevedeva un dai-e-segui iniziale con successivo coinvolgimento con varie opzioni di un tagliante dal lato debole. Lo fece ovviamente alla maniera jugoslava, con una pedanteria senza pietà e andò avanti fino a che i ragazzi non ebbero appreso alla perfezione i movimenti che dovevano fare. Poi , una volta appresi i movimenti senza difesa, passò al gioco vero e proprio tre contro tre con i ragazzi che dovevano scegliere le opzioni giuste in dipendenza da quanto la difesa offriva loro. Se non lo facevano fermava il gioco e tentava loro di spiegare perché avrebbero dovuto fare altrimenti. Ripeto, si trattava di 14-15enni.

Ovviamente la cosa mi sconvolse e dopo l’allenamento la prima cosa che gli chiesi era perché lo avesse fatto e se non era troppo presto per insegnare ai ragazzi cose che secondo il mio ragionamento (che ricalcava quanto detto sopra in merito alla filosofia attuale sui vivai) andavano insegnate molto più tardi, la sua risposta fu: “Vedi Sergio, i ragazzi sono ancora piccoli, ma non sono scemi. Se vuoi avere in futuro bravi giocatori di basket devi come prima cosa insegnare loro a pensare. Non è che io abbia insegnato questo gioco a tre perché lo usino in partita o per metterlo negli schemi che poi farete, e io spero che proprio non li farete, ma per fare in modo che comincino a pensare e a leggere le situazioni in campo. La cosa più importante di tutte è però quella che in questo modo imparano prestissimo che il basket è un gioco di squadra e che solo con la collaborazione fra i giocatori si può arrivare al successo. E prima si rendono conto che il basket è un gioco di squadra, meglio è.”

Quanti anni sono passati? 46? (Brr…, mamma mia!) Ebbene non so se mi crederete, ma quelle parole le ho talmente memorizzate, tanto da farne uno dei capisaldi della mia mentalità cestistica, che ancora adesso mi risuonano nelle orecchie e se chiudo gli occhi mi pare di rivivere il momento in cui le ho sentite. Un’altra cosa che mi sconvolse fu la reazione dei ragazzi a questa novità. Furono entusiasti. Mi capitò addirittura che nella prima partita amichevole che giocammo dopo quello stage, senza che io dicessi niente, vidi il mio play fare l’occhiolino alla guardia e all’ala e i tre, di punto in bianco, misero in atto il gioco che avevano imparato e che fra l’altro riuscì perfettamente (gli avversari furono colti totalmente alla sprovvista) rendendoli ancora più euforici. Per non parlare dello spirito di squadra che si cementò in questo modo con i ragazzi che dopo la partita si scambiavano opinioni, si chiedevano se forse non sarebbe stato meglio fare un’altra cosa, che per dirimere la questione chiedevano un parere a me, insomma di colpo li ritrovai coinvolti nel basket nel modo giusto, tentando di capire cosa facevano, pensandoci sopra, tentando insomma di scoprire, come dicono inglesi, “the way it is”. E, dopo tantissimi anni, facendo nella vita tutt’altre cose (anche se di quella squadra due giocatori furono colonne insostituibili dello Jadran delle meraviglie della metà degli anni ‘80, dalla Promozione alla Serie B), devo dire che di persone che ne capiscano più di basket di quel nucleo mio originario ne conosco molto poche, parlo in ambito globale, non certo limitato al nostro ambiente.

La morale che si può trarre da questa favola è secondo me che qualsiasi atteggiamento fondamentalista, e ciò vale per qualsiasi campo, anche per quelli molto più importanti dello sport, è semplicemente deleterio più che controproducente. Ripeto, fermo restando che di base l’idea mi sembra buona, solo per questo, per fare in modo che l’idea resti “pura” e “incontaminata”, rinunciare a insegnare ai ragazzi le basi del gioco collettivo mi sembra insano. Secondo la mia opinione il basket deve essere imparato in un contesto “globale”, cioè partendo da quanto accade sul campo quando ci metto cinque neofiti per parte spiegando loro le regole base e dicendo che lo scopo è quello di fare canestro lasciando che se la sbrighino da soli, per proseguire spiegando e analizzando quanto successo, dove hanno fatto bene e dove hanno fatto male e perché, per poi, una volta appreso a cosa servono, passare all’analisi tecnica dei vari fondamentali insegnandone le corrette esecuzioni che però, importantissimo, non vengono fatte sulla luna, ma in contesti ben precisi che prevedono il coinvolgimento di tutti i compagni di squadra e ovviamente degli avversari che interagiscono con noi. Per cui, visto che i blocchi esistono, bisogna imparare cosa sono e come farli. Certo, prima bisogna fare in modo che il livello di apprendimento sia tale per cui uno che porta il blocco e uno che tenta di sfruttarlo sappia cosa fa e perché lo fa (inutile che io insegni i blocchi a gente che non sa palleggiare o palleggia guardando la palla…come fa a vedere cosa succede?), ma quando i presupposti ci sono, bisogna insegnarli, che diamine.

L’idea di base deve essere sfruttata in modo “filosofico”, non materiale. Nelle categorie giovanili bisogna sempre inculcare nei ragazzi (ragazze) i due concetti fondamentali della responsabilità individuale (essere pericolosi in attacco sapendo giocare uno contro uno e essere capaci in difesa di difendere sul proprio uomo) e della responsabilità di squadra (il basket è un gioco di 5 contro 5 e, se non si gioca in 5 contro 5, non è basket) trovando il giusto equilibrio fra i due, trovare soprattutto nel periodo di apprendimento i momenti nei quali bisogna calcare la mano su un aspetto e i momenti invece nei quali bisogna calcare sull’altro, secondo la vecchia teoria del pendolo o dell’azione e reazione, o della tesi, antitesi e sintesi, dipende da quanto siete filosofici, l’unica che porta, tramite l’interagire fra lo “ying” e lo “yang” (vedete come sono poetico?), a un processo di sviluppo armonico e completo.

E’ difficile? Bisogna essere bravi per farlo? Certo, maledizione. Bisogna essere quasi fenomeni. Bisogna sapere leggere nell’animo umano, capire i ragazzi(e) sia dal punto di vista singolo che di gruppo, motivarli, fare in modo che pensino e nel contempo trovino la voglia di lavorare indefessamente sui fondamentali, bisogna insomma improvvisare secondo le situazioni contingenti. Altro che formulette magiche! Nessuno le ha mai inventate e mai si inventeranno.