Sfortuna? No, errore!

E’ sicuramente capitato a chiunque abbia assistito, a vario titolo e diversamente coinvolto, ad una partita di basket di aver visto il pallone rigettato dal canestro, anche quando si da il punto, i due o tre punti per cosa fatta. Oppure toccare il tabellone, rimbalzare sull’anello e schizzare via, o, ancora, ruotare una, due, tre volte intorno al ferro (spesso al suo interno) e poi andarsene via beffardamente e, per molti, inspiegabilmente. E di aver sentito, più o meno intensa, una esclamazione: “ohhh……”, con durata e numero delle “h” incrementato o decrementato in relazione al momento che vive la partita – decisivo, attimo in cui la partita può girare a favore di una o dell’altra squadra, tiro “della disperazione” dal cui esito dipende il risultato finale – alla sorpresa, alla delusione, al gruppo di appartenenza – tifosi, appassionati, ultras – e così via. All’esclamazione segue, pressoché certa, l’affermazione “che sfortuna” o la più prosaica ed attuale “che sfiga”.

In tutti questi casi, la dea sbendata, new entry nell’Olimpo cestistico, interviene con un soffio malizioso, subdolo nella fase conclusiva del tiro mandando a vuoto quello “sfortunato”e lasciando minore spazio alla sorella buona, quella bendata, che fa invece accogliere dal canestro il tiro “fortunato”.

Proprio di fronte a una casistica così precisa e alle prese di posizione più ricorrenti è opportuno mettere a fuoco la situazione e sgombrare il campo dal dilemma “sfortuna o errore” che, avendo ragione di esistere per molti, va risolto. In estrema sintesi, non ci sono dubbi, vince a mani basse il secondo. Basta seguire dal vivo i movimenti che portano al momento sotto esame con occhi non velati dal tifo o dalla passione e dal coinvolgimento derivante per rendersene conto. Oppure, strumento benvenuto nell’occasione, verificarli nel caso di replay televisivo che agevola l’analisi della meccanica di esecuzione del tiro incriminato.

Non siamo ad un clinic per allenatori e l’argomento è più vasto di quanto appaia, considerate le tipologie di tiro coinvolte, e richiederebbe pagine e pagine per trattarlo esaustivamente. Però, un’occhiata attenta ai casi più clamorosi, in sintonia con lo spirito della rubrica, consente di mettere in evidenza gli errori che li generano e contribuisce a risolvere il dilemma con una maggiore cognizione di causa. Qualche dettaglio tecnico si impone per chiarire cosa accade in quei momenti e per integrare con qualche sfumatura la conoscenza del gioco.

Il tiro da sotto

Un buon numero di tiri sfortunati si verifica sotto canestro, tanto sulla penetrazione in palleggio quanto sul tiro che segue un taglio senza palla e successiva ricezione o, ancora, sul tiro che segue il rimbalzo recuperato. Fatti salvi i tiri comunque eseguiti a fronte di un corretto ed efficace intervento difensivo o di un fallo del difensore che vanno a segno – eh! sì, con una buona dose di fortuna – ci sono alcune concause che portano inevitabilmente all’errore: la concitazione del momento, la congestione dell’area, lo scarso equilibrio del corpo, l’estensione incompleta del braccio (il classico braccino corto), lo scadente controllo del pallone e il conseguente rilascio improprio, il calo dell’attenzione per eccesso di confidenza e troppa sicurezza (la mente stacca la spina, nel cervello scatta il clic impietoso della sicurezza eccessiva che si concretizza con un vuoto momentaneo che annulla il controllo del gesto tecnico).

Basta anche una sola di queste cause, ma solitamente sono almeno due, per far sì che il pallone si comporti in modo anomalo ma direttamente conseguente da come è stato gestito. Talvolta basterebbe chiedere aiuto al tabellone, grande amico dei tiratori ma troppo spesso dimenticato, per compensare l’errore di esecuzione e ottenere comunque i due punti.

Il tiro da fuori

Quando la distanza comincia a incidere maggiormente, la tecnica di esecuzione riveste un ruolo sempre più decisivo. Ci sono ottimi giocatori con una meccanica di tiro incompleta, a volte addirittura approssimativa. Quando una di queste componenti: gambe, posizione della mano sul pallone, allineamento pallone-gomito, polso “spezzato”, rilascio del pallone (guardi il lettore la posizione finale della mano e delle dita), non fa parte palesemente della cosiddetta “routine” o è carente, il tiro “sfortunato”, per chi lo ritiene tale, ha concrete possibilità di fare la sua comparsa. Il pallone tocca il tabellone troppo fortemente e quindi non trova l’amico e poi picchia sul ferro che lo sputa via – si passi il termine gergale ma efficace – oppure colpisce direttamente l’anello come già citato. Soltanto l’intervento di una delle due sorelle, quella buona e bendata, può aiutare in questi frangenti il tiratore, ma l’altra, stanti le carenze citate, non sta a guardare e interviene malignamente senza compensare, salvo rarissime occasioni, le lacune dei tiratori.

Il tiro libero

Al di là della apparente, proprio solo apparente, facilità, il tiro libero presenta difficoltà di varia natura: la sua routine, la mente, l’ambiente. Il fatto che il giocatore sia solo sulla linea, non ci sia avversario ad ostacolarlo e abbia, tutto sommato tempo per pensare (ahimé) e concentrarsi, induce i più a pensare ad un tiro facile, ma è più appropriato etichettarlo con un nome preciso: trappola.

Il giocatore, in realtà, è solo contro tutto e tutti: urla dei tifosi avversari, punteggio, a volte, in equilibrio, momento decisivo, agitazione, ecc…. Già questi ostacoli bastano, come si dice, per far tremare i polsi. Ma c’è un’insidia, a meno che non ci siano errori tecnici evidenti o macroscopici di esecuzione (esiste, in merito, una casistica corposa), di gran lunga più pericolosa: la nostra mente. A questo punto è utile, nonché doverosa e necessaria, una deviazione – più propriamente, un approfondimento – per meglio chiarire e comprendere un problema non preso in considerazione o, se va bene, erroneamente relegato in secondo piano.

Se un giocatore supera gli ostacoli appena citati ma è preda di pensieri limitanti, di gran lunga più insidiosi dei precedenti, non ha scampo, il suo tiro andrà a vuoto, magari per un’inezia, e sarà accompagnato dalle esclamazioni di sorpresa e/o delusione dei tifosi. Cosa accade nella mente del tiratore in questi casi? Il suo cervello fa emergere in primo piano termini, frasi o pensieri negativi quali: “adesso sbaglio”, “non ce la faccio”, “questo tiro è decisivo”, e così via e il giocatore, anche in modo inconsapevole, perde tranquillità, sicurezza, fiducia.

Rimuovere scorie di questo tipo e ancorare il cervello a pensieri – “segno”, “sono bravo” –, a monosillabi – “sì” –, e a immagini – “il pallone che entra nel canestro” – positivi è il passo decisivo, unitamente alla rimozione di impurità tecniche, se esistono, per superare le trappole mentali e diventare un migliore esecutore di tiri liberi e, non dimentichiamo, per questo excursus apparentemente fuori tema, trasformare lo scoramento dei tifosi per il tiro “sfortunato” in gioia.

Sorprende, va detto, come gli allenatori, tanto dei settori giovanili quanto di vertice, dedichino poca attenzione a questi aspetti così determinanti per la riuscita di un buon libero e, spesso, sul risultato delle partite e non aiutino i propri giocatori a diventare consapevoli delle proprie capacità anziché delle debolezze.

Conclusioni

Se queste precisazioni risulteranno utili per una migliore comprensione del gioco, anche a scapito di ridurre un po’, è vero, il pathos dei tifosi, un risultato sarà raggiunto. Se no, ci mancherebbe, ognuno è libero di seguire e vivere il basket come meglio crede. Anche se, spiace dirlo, gli estimatori del tiro “sfortunato” devono farsene una ragione: se non va a segno, il tiro è sbagliato. Ricordiamolo sempre: il tiro “sfortunato” non esiste, quello “fortunato” sì.

ALDO OBERTO

Per ulteriori approfondimenti e curiosità sugli stili di gioco delle squadre si rimanda al sito www.lavagnatecnica.it e, in particolare alla sezione “Contributi”, voce “Varie”, dove è reperibile l’articolo: “Il tiro libero: sembra facile … (un tiro mentalmente difficile)”