Certo che me ne avete dati di argomenti sui quali scrivere e commentare. Dalle discussioni su regole burocratiche, e come tali incomprensibili, con le quali lo sport europeo combatte battaglie perse in partenza contro la globalizzazione mondiale, ma soprattutto contro il fenomeno epocale della nuova migrazione dei popoli, alle discussioni di alta filosofia sul senso e il valore che hanno le squadre nazionali, appunto, nella logica di cui sopra. Con in mezzo anche commenti e riferimenti all’incredibile messe di competizioni sportive che ci sono state in questo finale di estate.

Penso che uno dei compiti che spetti a chi provoca e coordina queste discussioni sia anche e soprattutto quello di tirare alla fine le fila delle discussioni per provare a trovare una sintesi che aiuti in tempi successivi a salire di livello nelle discussioni stesse.

Parlerò pertanto di nazionali e dei sentimenti che, secondo me, sono ad esse collegati. Vedete, come sapete provengo da una terra di frontiera e sono un misto di etnie e culture varie. Benissimo, direte voi, chi più internazionalista di te? Non è così facile e soprattutto non è assolutamente spiegabile a chi, come la maggioranza di voi, appartiene a una sola cultura (credetemi, qui ha ampiamente ragione Dario Fabbri, rispetto a quasi tutte le altre realtà europee l’italiano è un popolo molto omogeneo, anche se pensa di non esserlo). Appartenere per nascita e educazione a molte culture con memorie storiche totalmente diverse è da una parte una benedizione, perché ti permette di vedere le cose, diciamo così, in modo stereoscopico, ma soprattutto rendendoti conto dalla nascita che non esiste in realtà una verità storica assoluta, ma che ognuno, in ogni singola cultura, la vive e interpreta in modi totalmente diversi l’uno dall’altro, per quanto sia intimamente convinto che la sua personale realtà sia quella assoluta. Dall’altra parte però ti instilla già dalla nascita una specie di schizofrenia, nel senso che tutte queste personalità diverse che ti ritrovi ad avere ti scombussolano e alla fine ti ritrovi a chiederti chi in definitiva sei, quali sono le tue vere radici e a chi appartieni. Questo è il punto più difficile da spiegare ad esempio a uno come Buck, che pure è persona di cultura e conoscenze spaventose, ma che questo problema meramente esistenziale mai ha dovuto affrontarlo. Spiegare che trovare le proprie radici è fondamentale per sviluppare una personalità sana e consapevole, lo so per esperienza, è impossibile a chi questo tipo di problema neanche sospetta che possa esistere. Attenzione: non si tratta di abbracciare una singola cultura e rinnegare tutte le altre che ci portiamo dentro, ma semplicemente mettere le cose a posto da un punto di vista strettamente emotivo, tenendo ben distinti i due piani, quello emotivo che ti dice chi sei e quali radici hai, e quello razionale nel quale vivi e sviluppi tutte le culture che possiedi tentando di trovare una sintesi, ripeto razionale, che ti faccia capire quanto più si può del mondo. Insomma la mente ti dice una cosa che è totalmente diversa da quello che hai nel cuore e nel più profondo irrazionale del tuo animo. L’importante è rendersene conto e vivere questa cosa in modo del tutto naturale.

Niente male come alta filosofia, no? Devo confessare che quanto scritto l’ho elaborato in questi ultimi giorni con lunghe riflessioni non per causa vostra, ma riflettendo su un libro che sto leggendo e che mi è stato regalato dall’amico Loris Lovat, proprietario dell’omonima libreria di Villorba con distaccamento a Trieste. Si chiama Trieste selvatica ed è stato scritto da un triestino di origini meridionali di nome Luigi Nacci. Un libro bellissimo che consiglio a tutti e che affronta proprio questo tema analizzando vita e opere di una lunga lista di grandi intellettuali triestini, compresi ovviamente Svevo, Saba, Stuparich, Slataper e anche Joyce, se è per quello. Leggendo delle personalità tutto sommato disturbate di tutta questa gente e della divisione che fa l’autore fra Trieste bianca e Trieste nera, fra quelli che vedono (come me) Trieste come la città indiscutibilmente più bella al mondo e quelli che invece la vivono come un incubo da cui fuggire il prima possibile, mi è venuto spontaneo concludere che è bianca per quelli che sono riusciti a fare l’operazione su se stessi di cui sopra, e invece nera per tutti coloro che vivono la congenita schizofrenia, anche questa di cui sopra, senza aver mai fatto chiarezza, o ancora peggio, abbracciando una sola cultura (quella italiana, ovviamente) soffocando e sopprimendo tutte le altre che avevano dentro, e che consideravano inferiori, causando così un conflitto interno che immagino mai abbiano risolto.

Cosa c’entra tutto questo discorso con le nazionali? Era un dovuto e imprescindibile riferimento al fatto che tutti noi esseri umani abbiamo due lati della nostra personalità, quella razionale e quella emotiva che è altrettanto importante. Voglio subito precisare che non reputo assolutamente insensibili quelli che non se ne rendono conto. Appartenendo a una sola cultura non hanno mai affrontato questo problema e semplicemente non sanno che esiste e che è fondamentale per definire la personalità di ciascuno di noi. In questo quadro è assolutamente inevitabile che in campo sportivo, quello che più sonda le emozioni primordiali, il senso di appartenenza emerga in modo spontaneo e irrefrenabile quando i “nostri” affrontano gli “altri”. La figlia di una mia amica (Kristina, fra l’altro qualcuno l’avrà vista nelle vesti di cameriera all’ultima sconvenscion) raccontava che mentre si trovava a Bordeaux per un corso di Erasmus il giorno della vittoria del Marocco contro il Portogallo (?) agli ultimi Mondiali di calcio non poté letteralmente tornare a casa per l’ingorgo causato in centro dai festanti marocchini del luogo, tutti peraltro cittadini francesi a tutti gli effetti. Non trovo esempio più calzante che confermi che le radici, quando le emozioni le spingono, vengono sempre a galla.

Del resto del problema delle nazionali si parlava già tantissimo tempo fa. Già dagli inizi di Superbasket negli anni ’80 Aldo Giordani andava predicando che le nazionali erano obsolete ed era solo questione di tempo prima che sparissero. Sono passati oltre 40 anni e non mi sembra che siano sparite, anzi. Proprio in quel periodo ne parlai con una delle persone che più hanno formato la mia “Weltanschauung” sul basket e non solo, il leggendario fondatore del moderno basket sloveno Boris Kristančič, persona dall’intelligenza spaziale, che al mio accenno a quanto predicava Giordani si mise a ridere e mi rispose: “Caro Sergio, è esattamente vero il contrario! Più il mondo andrà avanti verso la globalizzazione e al mescolamento delle genti, più sarà vivo il bisogno di avere radici e mantenerle vive. E le nazionali sportive sono il veicolo più formidabile per poterle esprimere, per cui non ti preoccupare, le nazionali esisteranno sempre.” Non mi sembra che il tempo gli abbia dato torto. Per cui, Buck e affini, mettetevi il cuore in pace, le nazionali continueranno a esistere e a rompervi i marroni. Del resto è lampante che la gente comune si appassiona a uno sport quando la nazionale del proprio paese vince, e qualche ragione ci sarà pure. Come detto e mai abbastanza sottolineato tutti hanno bisogno di riconoscersi in qualcosa e la bandiera nazionale (mille anni di storia non si cancellano in un paio di generazioni) è ancora e sempre un simbolo fortissimo e insostituibile, come del resto rimarranno sempre vive e sentite le sfide di campanile, rione e città. Non credo che per un milanista battere l’Inter (e viceversa) o la Roma sia la stessa cosa. Né mai lo sarà.

Semmai ci sarà al contrario qualche nuovo simbolo in cui riconoscersi che sarà ancora più vasto e pluricomprensivo. E’ stata la cosa a cui ho subito pensato ascoltando (su Sky – a proposito, sapete qual è secondo me attualmente di gran lunga il miglior telecronista in assoluto per talento e capacità in Italia? E’ senza dubbio Silvio Grappasonni che fra l’altro non è mai stato giornalista, c.v.d., sono due mestieri diversi, ma solo straordinario esperto di golf – la sua presenza al microfono in perfetta sintonia con quanto vede lo spettatore, la scansione quasi musicale dei tempi di intervento, insomma la sua maestria tecnica nel proporre uno sport del quale è fra l’altro straordinario intenditore, lo rendono veramente insuperabile) le interviste post-Ryder, manifestazione che ha ovviamente assorbito tutta la mia attenzione nell’ultimo fine settimana. E ho visto Francesco Molinari, vicecapitano della formazione europea, che non riusciva a parlare, sopraffatto dall’emozione con le lacrime agli occhi, ho sentito Rory McIllroy che esprimeva tutta la sua gioia con parole che gli uscivano a valanga dalla bocca con perfetto accento irlandese, come sottolineato dallo stesso Grappasonni, dimenticando l’affettato eloquio americano che sfodera nelle occasioni formali, ho visto i giocatori europei, ognuno fasciato dalla bandiera del suo paese, che si abbracciavano ebbri di felicità scandendo “Two more years! Two more years!” nei confronti del loro magnifico capitano Luke Donald che aveva lavorato in modo assiduo e meticoloso per due anni per selezionare prima e preparare poi la squadra. Tanto per dire uno dei capisaldi della formazione europea, lo straordinario norvegese Viktor Hovland, aveva qualche settimana fa vinto qualcosa come 10 milioni di dollari in un colpo solo vincendo la FedEx Cup, voglio dire che si tratta di gente che non ha certo problemi economici per sopravvivere, ma che partecipa alla Coppa gratis solo per la gloria e per tenere alto l’onore del continente per il quale giocano. A proposito del quale nessuno ha sottolineato il particolare molto curioso, al limite del grottesco, che la rappresentativa europea ha giocato sotto la bandiera blu dell’Unione, alla cerimonia di apertura è stato suonato l’Inno alla gioia, mentre in effetti sia il capitano che sette giocatori su dodici (quattro inglesi, uno scozzese, un nord irlandese e un norvegese) dopo la Brexit nulla avevano più a che fare con l’Unione stessa. Eppure nessuno ci ha fatto caso e la strabocchevole folla di appassionati arrivati da tutta Europa continuava a sventolare la bandierina dell’Unione per incitare i giocatori. L’Europa unita non esiste? Ve lo concedo. Ma se lo sport, come sono sicuro e come ho già affermato tante volte, anticipa i trend sociali e politici, allora prima o poi esisterà, ne sono fermamente convinto. Certo, si tratta di un processo lentissimo e epocale che io, per esempio, non potrò mai vedere, ma che forse potrà già essere realtà quando saranno adulti i vostri nipoti.

A questo punto, scusate, non riesco proprio a appassionarmi ai, per me, futili discorsi sull’eleggibilità di questo o quest’altro per poter giocare in campionato o in nazionale. A parte il fatto che più leggi si fanno, più inganni si trovano, tanto più che le leggi stesse sono inevitabilmente fumose, vista la straordinaria complessità della materia che vorrebbero regolare, materia che si complica sempre di più con le migrazioni sia interne che dall’esterno e anche grazie alla mancanza di quella che dovrebbe essere la più logica, e, concedetemi, umana delle soluzioni, quella che prevede per l’attribuzione della nazionalità lo ius soli. Facciano come gli pare, anche se per me dovrebbe comunque valere quello che già esisteva, e per ragioni a me totalmente incomprensibili poi abrogato, e cioè che uno, una volta che ha giocato per una nazionale a livello giovanile, poi per tutta la vita dovrà giocare per quella nazionale e per nessun’altra. Non c’è prova migliore infatti che uno sia un prodotto di un determinato vivaio di quella che lo vede schierato in una nazionale giovanile del paese dove ha imparato a giocare. Onestamente comunque di queste discussioni non mi importa. Mi importa solo ribadire che il concetto stesso di nazionale è ben al di sopra di queste diatribe da legulei. Tanto più che con il tempo, e le migrazioni dei popoli in atto, il criterio di eleggibilità sarà sempre più aleatorio e comunque sfumato. Quello che mi interessa è che, chiunque giochi con la maglia di una nazionale, la gente si riconosca in quei giocatori. Come già del resto succede già adesso per le squadre di club, per le quali a nessuno importa un fico secco da dove provengano i giocatori, basta che i propri colori vincano. Se vale per i club non vedo perché non debba valere a fortiori ancora di più per la nazionale.

Ci sono state anche altre nazionali che si sono esibite in questo scorcio di stagione. C’è stato per esempio il flop della nazionale femminile italiana di pallavolo che ha mancato clamorosamente l’accesso alle Olimpiadi pur possedendo giocatrici che avrebbero dovuto riuscirci anche abbastanza agevolmente. Guardando la decisiva partita persa contro la Polonia non ho potuto non pensare all’analogo flop della nazionale slovena di basket agli Europei giocati in casa trovando una clamorosa conferma a quanto avevo detto in quell’occasione. Le dinamiche umane nello spogliatoio di una squadra femminile sono del tutto diverse da quelle che regolano i rapporti all’interno di una squadra maschile. In sintesi le ragazze non palesano mai i loro veri sentimenti e sono per natura portate a fare una specie di inconscio sciopero bianco quando le cose non vanno come per loro dovrebbero andare. Le slovene del basket ce l’avevano con il loro staff tecnico e dirigenziale per come era stato trattato il caso Barič, le italiane del volley ce l’avevano invece evidentemente per come era stato gestito il caso Egonu. Le conseguenze sono state perfettamente le stesse. Contro qualsiasi avversaria che si trovavano davanti giocavano alla pari, se non meglio per tutta la partita, salvo squagliarsi nel finale con errori banali del tutto inusuali per le loro capacità. Il caso dell’Italia del volley è quasi paradigmatico. Distrutta la Polonia nel primo set quando giocavano ancora normalmente, sono andate progressivamente in bambola e nel finale degli ultimi due set sono letteralmente andate fuori di testa. Lezione: se proprio non avete l’acqua alla gola non allenate mai una squadra femminile.

E poi ci sono i Mondiali di rugby. Prima della partita contro la Nuova Zelanda avevo ascoltato su Sky una dotta disquisizione di Diego Dominguez su come fosse finalmente venuto il momento perché l’Italia giocasse alla pari contro gli All Blacks, per cui ho deciso di dare un’occhiata alla partita. Ho visto per carità di patria solo il primo tempo perché quanto vedevo era imbarazzante. Ho visto in sostanza un unico canovaccio che si è ripetuto continuamente fino allo svenimento e che prevedeva che la falange di carri armati vestiti di nero spingesse di continuo in avanti quella molto più debole e fragile degli italiani fino alla linea di meta. Ci sono riusciti tante volte che alla fine i loro punti segnati hanno sfiorato la tripla cifra. Ora lasciamo stare che vedere uno sport dove vince chi spinge di più e meglio non è proprio il mio genere di sport preferito, come ben sapete, ma il punto è che non si può presentare un match fra un peso massimo e uno mosca pretendendo che il match possa essere giocato alla pari. Se si vuole promuovere uno sport io penso che la prima cosa da fare sarebbe quella di essere onesti prima di tutti con se stessi.

Per finire ancora una chiosa musicale. I neri americani, che se ne intendono, quando vogliono definire quello che ritengono un grande musicista dicono: “He got soul”, ha anima, non dicono certamente “He got brain”. Il brain con la musica, e sono in questo perfettamente d’accordo con loro con tutta la mia soul, semplicemente non c’entra. E’ la forma d’arte più squisitamente legata al nostro universo emozionale. Ci fa ballare, battere le mani e i piedi, ci fa sognare, ci fa piangere o ridere, ma non ci fa mai pensare. Per questo ci sono altre forme d’arte. Ragion per cui nella mia pur nutrita collezione di dischi non c’è né mai ci sarà, non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di comprarlo, nessun disco dei Pink Floyd.