A guardarli oggi i Dons, la squadra dell’Università di San Francisco, fanno un po’ tristezza. Specie pensando che la canotta che portano su oggi fu un tempo quella di Bill Russell, che nel 1955 e nel 1956 trascinò il college a due titoli Ncaa consecutivi. Il programma dei californiani restò di alto livello fino agli inizi degli anni ’80, quando diversi scandali portarono alla chiusura del programma cestistico per alcuni anni.
La ricostruzione iniziò nell’estate del 1984, anche se i Dons tornarono a giocare in un torneo nazionale solo l’anno successivo. Uno dei primi due giocatori della nuova leva di San Francisco era un’ala di 1,98 che aveva fatto faville alla piccola high school di Davis (17,0 punti e 9,6 rimbalzi di media), paesotto alle porte di Sacramento. Si chiama Michael Franti.
A qualcuno il nome forse non dirà granché di primo acchito, ma se vi linko questa canzone qua?
Ok, ora l’avete inquadrato. Ma toglietevi di testa la canzonetta con Jovanotti. Il nostro, infatti, nasce musicalmente come punker e si evolve come rapper della vecchia scuola. Ma non avrebbe mai incontrato la sua grande passione senza il basket.
Come anticipato, Michael è una promettente ala dal fisico debordante e dalla buona rapidità, caratteristiche che, a detta di coach Jim Brovelli, ne facevano un giocatore sul quale puntare. Nel 1984 il college ricomincia a reclutare giocatori da tutta la California in vista del futuro ritorno di un programma di basket strutturato. E punta sul giovane Franti, che approda al campus della Baia. Ha 4 fratelli, tutti che suonano almeno uno strumento. Ma lui, fino a quell’età, in mano ha tenuto solo la palla a spicchi. La sua vita è nei playground del suo quartiere, dove cresce tra mille difficoltà. Quelle che racconterà in Why Oh Why, pezzo che andrà a far parte di uno dei primi suoi album con la sua storica band, gli Spearhead. L’album è “Chocolate Supa Highway” del 1997, il primo nel quale Franti mostra il fianco a influenze reggae sempre più forti. Ma in questa Why Oh Why la potenza cupa dell’hip-hop resta dura e monolitica.
L’arrivo al campus, dicevamo. Lo studio non era mai stato il suo forte. “A San Francisco ero venuto per giocare a basket”, conferma lo stesso Franti in diverse interviste. Ma all’università trova un ambiente che lo stimola. Frisco, anche una volta passata l’ondata hippie, è rimasto uno dei poli culturali più vivaci d’America. Michael intraprende i corsi in comunicazione ed arte e con la sua stanza che si trova proprio davanti agli studi della radio dell’ateneo inizia a incuriosirsi nei confronti della musica. Divora i dischi di novità che arrivano sotto le mani dei dj e compra un basso con il quale inizia a fare pratica.
Intanto è passato un anno, è arrivata l’ora di esordire nella West Coast Conference di Ncaa. Il grande ritorno dei Dons 3 anni dopo l’ultima apparizione in Division I. Michael ormai ha la testa altrove e infatti il suo rendimento in campo ne risente eccome. Il suo contributo nella tutt’altro che esaltante stagione della squadra è marginale (6,3 minuti di media sul parquet con 2,3 punti e 1,2 rimbalzi a partita) per cui il suo ritiro non viene certo salutato come un dramma nelle palestre del campus.
Franti si getta anima e corpo su studio e musica, si laurea e fonda diversi gruppi, fino a trovare la sua strada con quegli Spearhead che da 21 anni gli fanno da spalla. Il basket, però, resta sempre una grande passione e per questo non può non dedicargli un pezzo nell’album di esordio “Home”, del 1994. Il brano si chiama Dream Team e, ovviamente, parla anche di Magic e Jordan. Anche. Perché il ricordo della squadra di Barcellona ’92 viene usato da Franti per una delle sue classiche invettive contro il razzismo.
“I dreamed Charles Barkley would be played by Marcus Garvey”, inneggia Franti. Chissà che Bill Russell avrebbe approvato.