Questa volta la faccio grossa e, seppur vergognandomi di farmi auto-pubblicità, vi dico lo stesso che ho appena finito la prima stesura del mio libro, quello che io reputo a tutti gli effetti il mio secondo. Nel senso di mio, scritto e pensato interamente dal sottoscritto. Ho voluto lasciare una testimonianza sulla storia della redazione sportiva di Telecapodistria, dai primi avventurosi albori attraverso i tempi d’oro fino ai giorni odierni di purtroppo inevitabile decadenza, per non dire sparizione tout court. In pratica si tratta di una cavalcata nel tempo, arricchita anche di gustosi e a volte esilaranti aneddoti, che racconta l’improbabilissima storia di una banda Alan Ford di dilettanti allo sbaraglio diventata incredibilmente, e a nostra totale insaputa, una specie di mito in Italia. Dovrebbe uscire in autunno per i tipi di Bottega Errante, sperando ovviamente che non facciano troppo gli editori e lascino abbastanza le cose come stanno, nel senso di come le ho scritte io. Come ben sapete, del fatto che i miei periodi siano forbiti, costruiti secondo i giusti crismi lessicali e grammaticali, non potrebbe fregarmi di meno. Volendo, credetemi, saprei scrivere anch’io in modo asettico e formale, ma io voglio che la gente, leggendomi, mi senta quasi parlare al microfono con tutti i miei difetti e magari anche con gli ineludibili accento e cadenza triestini.
Tutto questo anche per dire che, una volta finito di scrivere il libro, mi sono quasi sentito svuotato e mi sono preso un bel periodo di inattività. Ora è passato e ho sentito la voglia di scrivere qualcosa per il blog, promettendo (minacciando?) anche che, a questo punto, i miei interventi saranno più frequenti.
A dire il vero non ho proprio tanti argomenti di cui parlare, visto che il responso al mio precedente post, che ho scritto con trasporto e con intenti molto seri, è stato fiacco, a dir poco. Tutto quello che ho letto sono state le solite diatribe su argomenti ai quali nel post non avevo neanche accennato fra persone convinte ognuna di possedere la verità assoluta che più che discutere e tentare di capire i punti di vista degli altri continuano imperterriti a perorare la loro causa, tenendosela stretta come fanno, come dicono gli sloveni, gli ubriachi con la ringhiera a cui sono attaccati per non cadere.
Per esempio c’è stata la stucchevole diatriba fra i fautori della straordinaria scuola di basket che secondo loro sarebbe Milano e quelli che invece dicono che Milano è stata solo una sanguisuga che per farsi bella ha sfruttato esclusivamente i talenti prodotti da altri. Se posso solamente dire una cosa è che ovviamente la verità sta nel mezzo e che Milano ha fatto semplicemente quello che fa ogni metropoli che ha tanta gente, dunque tanto pubblico, che ha soldi, che ha tutta la stampa che conta dalla sua parte e che dunque, come ogni centro di potere che si rispetti, è una specie di centro di raccolta, più che di talenti, di gente già bella, fatta e finita che in quel contesto può esprimersi al meglio. Onestamente cosa ci sia in questo di sbagliato non riesco proprio a capirlo. Nella storia è sempre andata così, in qualsiasi campo.
Il vero problema, secondo me, è se veramente tutta questa raccolta di gente venuta da fuori può esprimersi al meglio, almeno nella situazione attuale, andando al particolare, della squadra milanese di basket. Metto nuovamente le mani avanti e dico subito che quella che sto proponendo è la mia opinione personale (che comunque, come ben sa chi mi conosce, è ben radicata e difficilmente scalfibile, per cui non tentateci neppure, sarebbe con me tempo buttato via) che lascia il tempo che trova. Sono già, ahimè, tanto vecchio che mi ricordo benissimo la grande Milano degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, quella di Rubini per intenderci. Quella Milano faceva esattamente quanto, appunto, ogni metropoli doveva fare. Oltre a qualche giocatore prodotto dal proprio vivaio (onestamente, di veramente forti, di quelli che allora facevano la differenza, a parte Sandro Gamba, quanti ne ricordate?) Milano accoglieva e lanciava sui massimi palcoscenici giocatori che venivano da tutta l’Italia portandoli poi ai massimi livelli a cui le loro capacità potevano portarli. Dal pesarese Riminucci, al triestino Pieri (e poi Iellini), al toscano di Montecatini Masini, ai veneti Vianello e Bariviera (scusandomi con tutti quelli che ho dimenticato), tutti questi grandi giocatori hanno vissuto a Milano l’apice della loro carriera giocando da assoluti protagonisti. Ora la situazione mi sembra completamente diversa. Sono certamente cambiati i tempi, nel senso che una volta, visto che quella volta in campionato poteva giocare un solo straniero per squadra, se non in certi periodi addirittura nessuno, vinceva per forza chi aveva gli italiani più forti. Ora gli italiani giocano solamente perché il regolamento lo impone, per cui il loro impatto è sostanzialmente secondario. Ciò però non toglie che, visto che il campionato italiano non è certamente quello in Europa nel quale ci sia la crema dei giocatori stranieri che non trovano posto nel gran calderone dell’NBA, gli italiani non possano spostare qualche equilibrio, soprattutto quando come Milano fai incetta a tappeto di quelli più forti che ci siano. Io sono sempre convinto che un giocatore italiano che è bravo, che sai responsabilizzare al punto giusto, che soprattutto fai giocare e gli dai fiducia, sia comunque e a prescindere più forte della maggior parte dei cessi a stelle e strisce che vengono presi dalle squadre italiane per ragioni che a me, che non sono nel giro degli agenti, procuratori e mestatori vari che dettano legge in questo campo, appaiono perfettamente misteriose. Ed è proprio il fatto che Milano, in questi ultimi anni, preferisca far giocare sempre e comunque uno straniero al posto di un italiano che gli è pari, se non più forte, o se non più forte o spettacolare, se non altro più utile e concreto, mi lascia letteralmente basito. E’ una politica che non riuscirò a capire mai, perché mi sembra semplicemente controproducente, una gigantesca zappa sui piedi. E ciò perché ho la ferma opinione che un nucleo di giocatori italiani che trascorre un lungo periodo in una squadra diventandone quasi una bandiera sia un fattore imprescindibile per ottenere risultati a lungo termine, per costruire un ciclo, come si usa dire. Gli stranieri vanno e vengono e possono essere un formidabile rinforzo (se si rendono conto di non essere dei salvatori della patria che vengono in una terra rozza e incolta a miracol mostrare), ma sempre entro certi limiti di gerarchie e di autorità nello spogliatoio. E invece la squadra di Milano punta sempre e comunque sugli stranieri, prendendone anche di inguardabili o comunque gente che dovrebbe fare cose che semplicemente non sa fare (l’esempio di Pangos è clamoroso, e qui nessuno mi può tacciare di parzialità, visto che il cognome è tipicamente sloveno della periferia triestina, e infatti l’uomo ha anche il passaporto sloveno). L’esempio poi di James a cui era concesso tutto, anche quando era palesemente deleterio per la squadra, è sconvolgente. La storia di Napier, preso, scaricato e poi ripreso a stagione iniziata dopo il taglio alla Zvezda, non solo, ma anche rimesso in squadra come titolare, lascia a dir poco perplessi. In tutto ciò, tralasciando il fatto che Milano ha di fatto cancellato dal panorama del basket italiano gente molto interessante come Pascolo, Dalla Valle, magari anche Alviti o Baldasso e ha quasi rovinato la carriera di Melli prima e Fontecchio poi (se qualcuno mi contesta questi che sono dati di fatto che lo faccia su qualche altro blog), oggigiorno ha un nucleo di giocatori italiani che, quando sono stati chiamati a prendersi le loro responsabilità per gli infortuni dei totem stranieri, lo hanno fatto molto bene. Veramente molto bene, non è piaggeria, mi hanno sorpreso molto positivamente. Eppure, quando sono guariti i fenomeni stranieri, loro sono ridiventati inamovibili e i vari Tonut, Ricci, Flaccadori e Bortolani hanno ripreso la strada della panchina fissa. E Milano ha ripreso a giocare il suo gioco che ancora adesso non sono riuscito a capire quale sia. Ed è sulla ottima via, dopo la Coppa Italia, per finire la stagione brillantemente con zero tituli. Dipende tutto da come starà Bologna, letteralmente, se starà ancora in piedi dopo la stagione pazzesca, soprattutto da un punto di vista del dispendio emotivo, che sta vivendo. Quanto dico mi sembra sia stato confermato completamente da quello che si è visto nelle due partite della nazionale, nelle quali i milanesi sono stati assoluti protagonisti. Per finire il mistero più eleusino è per me Bortolani. Trattasi a mio avviso di un giocatore straordinariamente interessante, completo, dotato di ottima visione di gioco (lettura, si usa dire oggi) e che soprattutto tira sempre convinto di fare canestro, e dunque anche in fatto di personalità non è certamente l’ultimo venuto. Mi si sono rizzate le antenne quando in una partita di Eurolega, già vinta, ha trovato sotto canestro con un passaggio quasi al volo di tocco Tonut solissimo per il layup. Per me questo è un indice enorme di talento come lo penso io, nel senso che in una partita già vinta, dunque in condizioni psicologiche di totale relax, l’aver comunque visto con la coda dell’occhio Tonut testimonia del fatto che aveva il pilota automatico inserito e funzionante. E, credetemi, per me quei pochi che hanno in dotazione questo tipo di pilota automatico in testa sono proprio quelli che io definisco talenti veri. In nazionale contro l’Ungheria era imbarazzante quanto fosse più forte di tutti gli altri. Segnava come e quando voleva. Eppure a Milano non gioca. Perché, per Dio? Dovrà anche lui andare a piedi a Bamberg come Melli o a Berlino come Fontecchio perché la gente si accorga che è forte? Piange il cuore, perché ogni minuto inutile che passa in panchina è un minuto perso verso la sua maturazione che potrebbe essere molto rigogliosa.
Tornando per un istante alla Coppa Italia devo dire che negli ultimissimi minuti ho avuto una delle massime soddisfazioni cestistiche della mia vita. Non per quello che pensate, e cioè perché ha perso Milano, onestamente mi sarebbe un tantino dispiaciuto se Napoli avesse perso, perché era stata sempre avanti e, per come aveva giocato, avrebbe meritato di vincere comunque, ma non è che poi mi interessasse granché, ma per una faccenda puramente tecnica. Io, anche su questo blog, ho già sia detto che scritto che chiamare time-out per organizzare l’ultimo attacco è una cosa sbagliata per la semplice ragione che in questo modo si organizza la difesa degli avversari che hanno tutto il tempo per prendere le dovute contromisure. E infatti nella mia carriera di coach non l’ho fatto mai e mai me ne sono pentito perché ho anche vinto partite che, chiamando minuto, sono convinto che avrei perso. Il punto fondamentale è di avere in quel momento in campo un quintetto con le gerarchie ben definite dove si sa chi beve e chi paga, per cui sono i giocatori stessi che, in questo quadro, devono (ovviamente devo avere in campo giocatori svegli con le letture) scegliere in un istante la soluzione giusta. Chiaro, se ho in campo due James assieme sarà un disastro annunciato, ma sono cavoli miei che ho messo in campo un quintetto stupido. Allora: Shields, da grande campione, dopo aver sbagliato tutto lo sbagliabile (perché di grazia era in campo e soprattutto perché continuava a tirare senza che nessuno gli dicesse niente?), segna gli ultimi due tiri da tre e Milano va avanti di uno. Miličić non, ripeto non, chiama minuto, Napoli va in attacco e, sulla difesa che si sta ancora cercando, Pullen, lasciato solo, infila la tripla della vittoria. Poi Milano va in attacco, pasticcia, palla a Napoli a pochi secondi dalla fine per la rimessa e adesso sì che il coach napoletano chiama il minuto che aveva ancora per spostare la palla in attacco e liberarsi di ogni problema. Grandioso. E io godo.
Detto di sfuggita, ma ne parlerò ancora, che la nazionale mi è piaciuta e che onestamente discutere sulle scelte dei giocatori fatte da Pozzecco è secondo me indice di insipienza cestistica tout court, perché del Poz tutto si potrà dire, e sui suoi comportamenti forse anche andrebbe detto, ma che ne capisca di basket e soprattutto di giocatori veri di basket più dell’ almeno 95% delle persone che si ritengono esperti e che anche scrivono su questo blog è assolutamente, totalmente, indiscutibilmente fuori di alcun dubbio, mi resta ancora da rispondere alla richiesta di Roda di parlare di Rino Tommasi. Personalmente ci siamo conosciuti a Seul per le Olimpiadi. Chiaramente lo seguivo già da prima e ovviamente la sua enciclopedica conoscenza della boxe e del tennis nonché la sua cronaca asciutta, senza inutili fronzoli o voli pindarici senza senso, come purtroppo fanno i telecronisti esagitati moderni, me ne faceva uno dei miei telecronisti preferiti, come penso per la quasi totalità di quelli che lo seguivano. A Seul comunque ho vissuto un’esperienza che mi ha fatto molto pensare. Per la telecronaca della cerimonia d’apertura era previsto che io seguissi la parte iniziale, quella dei numeri di massa e dei richiami al folclore e alla storia locali, e Tommasi facesse poi la telecronaca della sfilata delle rappresentative nazionali. Finita la mia parte gli cedo il microfono e comincio a fare foto come un disperato ascoltando nel frattempo quello che diceva. Aveva davanti a sé un pacco di fogli con tutte le statistiche possibili e immaginabili su atleti, partecipazioni e medaglie vinte per tutte le nazioni partecipanti e le stava snocciolando a raffica. Sfila l’Argentina e vedo che la portabandiera è nientemeno che Gabriela Sabatini, la campionessa di tennis di cui penso ovviamente Tommasi sappia anche il numero di scarpe. La quale Gaby, felice come una pasqua, ride e sventola la bandiera verso tutto il pubblico salutando con la mano. Era la prima volta che il tennis era incluso a pieno titolo alle Olimpiadi e vedere una campionessa strapiena di soldi che è felice come una bambina di gareggiare gratis per il suo paese e la sua bandiera penso sia un fatto molto importante che testimonia in modo quasi paradossale del fatto che lo spirito olimpico è vivo soprattutto presso i mega-professionisti, gli unici che possono permettersi di gareggiare gratis senza che la loro carriera sia in alcun modo condizionata dal risultato contingente che otterranno. Insomma nello sport moderno uno, più è dilettante veramente, meno incarna lo spirito olimpico, proprio perché dal risultato olimpico dipende il suo futuro sia sportivo che a volte pedestremente materiale. Esattamente il contrario di quanto pensavano i ricconi che le Olimpiadi le avevano pensate, da De Coubertin a Brundage. Una situazione nuova che a mio avviso richiede un commento e faccio un cenno a Tommasi verso Gaby tentando di richiamare la sua attenzione. Ricevo in cambio un’occhiataccia, tipo come ti permetti, e lui ritorna a sparare le sue statistiche. Ecco, questo è stato secondo me un difetto di Tommasi, grandissimo professionista e impeccabile telecronista, ma che per rendere al massimo aveva assoluto bisogno di una spalla alla Gianni Clerici che lo completasse con i giusti riferimenti, diciamo così, culturali rispetto a quanto si vedeva. Ciò non toglie che sarebbe fantastico se oggigiorno esistessero dei Tommasi, ma ahinoi, le razza come la sua di gentiluomini e straordinari conoscitori degli sport che commentano, sembra essersi esaurita. Fra l’altro a Tommasi devo personalmente una chiamata a Telepiù dove mi offrì il posto di capo della sezione varie nella redazione sportiva, cosa di cui gli sarò sempre grato, posto che non accettai dopo che mi fecero delle proposte di compenso a mio avviso più che umilianti ridicole, trattandomi come un principiante che deve appena iniziare una carriera. “E quanto vorrebbe?” Sparai una cifra che era la metà di quanto sapevo che davano a Dan Peterson ribadendo che, se lasciavo la mia confort zone di Capodistria, era solo se mi davano una barca di soldi, se no non se ne parlava nemmeno. “Le sapremo dire”. Sto ancora aspettando.