*E’ una frase alla quale Mark Jackson ci ha abituato durante le sue telecronache in diretta nazionale e che si adatta benissimo all’ex numero 13 di New York e Indiana. Si tratta di un tributo alla sua conoscenza del gioco e alla sua capacità di tenerci incollati allo schermo anche come giornalisti, come se deliziarci per anni nella NBA non fosse stato abbastanza.

Il 27 Febbraio 2013 è stata una data particolare per Mark Jackson. Il luogo dell’incontro era la Mecca del basket, il Madison Square Garden, ad attenderlo c’era l’abbraccio dei New York Knicks, che ospitavano i suoi Golden State Warriors. La sua New York gli è passata davanti in pochissimi minuti, facendogli ripercorrere gli anni a St John’s University e il draft 1987, che lo vide protagonista con la 18esima chiamata assoluta dei “suoi” Knicks, allora illuminati dalla stella di Patrick Ewing.

Non è un caso che quel giorno di Febbraio era presente tutta la famiglia Jackson. Sei anni in maglia Knicks non sono stati dimenticati, come non lo sarà quella serata nonostante la sconfitta per 109-105. Stephen Curry, l’uomo su cui si poggiano le enormi speranze per il futuro della franchigia, si rende protagonista di una prestazione incredibile, in una serata difficile emotivamente per il suo coach, segnando ben 54 punti, massimo in carriera.

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Non è l’unico dei momenti importanti e significativi di questa stagione, che dopo 6 anni vede i Golden State Warriors vicini al ritorno alla postseason. Era il 2007 quando i Mavs uscirono sconfitti da testa di serie numero 1 ed era solo l’anno scorso quando i Warriors chiusero la stagione con il pessimo record di 23-43, nella prima da head coach di Mark Jackson, e nella quale, il terzo di tutti i tempi nella classifica degli assist (10334), non esitò ad avallare la cessione di una delle sue stelle, quel Monta Ellis finito a Milwaukee in cambio di una delle risorse più importanti, nonostante gli infortuni, per i Warriors di oggi: Andrew Bogut. L’attualità dice 41-31 (27 Marzo), dopo la grandissima vittoria contro i Los Angeles Lakers firmata Steph Curry e Klay Thompson.  E’ un successo che nasce da lontano, anche da New York e dalla carriera di Mark Jackson.

A St John’s è importante la frequentazione con il senior Chris Mullin, un altro che avrebbe avuto a che fare con i Warriors e con i Pacers nel corso della sua importante carriera. Mullin e il mitico coach Lou Carnesecca, sono considerati responsabili di avere, in particolare,  plasmato l’attitudine al lavoro in palestra di un giocatore straordinario, un leader senza paragoni nei suoi anni di militanza NBA, che oltre a quella  dei Knicks, gli ha visto vestire in maniera importante ance la maglia di Clippers e Pacers, oltre alle brevi apparizioni in quel di Denver, Toronto, Salt Lake City e Houston.

Mark Jackson dribbles the ball.

Mark Jackson ha infatti sin da subito dimostrato che “razza” di point guard sarebbe stata: è l’unico giocatore scelto al di fuori dalla lotteria ad aver vinto il titolo di rookie da quando il sistema del draft è stato stravolto, con una stagione da rookie, sotto coach Rick Pitino, da 13 punti e 10 assist. Ma i successi personali (come il numero degli assist di cui abbiamo accennato) non sono purtroppo coincisi con quelli di squadra. Solo una volta il numero 13 ha disputato la finale NBA, e molte altre volte si è avvicinato ad esse con la maglia dei Knicks: sulla sua strada si è trovato i Bulls di Michael Jordan, dopo i Lakers di Shaquille O’Neal.

L’unico All Star Game disputato nel 1989 e l’unica finale disputata nel 2000 sono nulla in confronto all’esperienza grandissima e senza pari, maturata dal ragazzo di Brooklyn. Un curriculum in grado di portare alle scelte che oggi stanno pagando cosi bene in quel del Nord della California: accusato di non aver fatto la necessaria gavetta, non avendo avuto alcun ruolo di assistant coach, Mark Jackson ha risposto prima a parole (“Sono stato allenato da alcuni dei migliori coach della storia”) e poi sul campo, valorizzando il talento a sua disposizione. Innanzitutto sembra aver pagato la scelta di usare Jarret Jack (rinato grazie alla “cura” Jackson) come point guard non solo al posto ma anche al fianco di Steph Curry, autentico fenomeno, che si sposta nel ruolo di guardia. Una scelta che dà flessibilità ai Warriors, che si possono così permettere di far riposare Klay Thompson o usarlo come terza bocca da fuoco sul perimetro, dove è fondamentale per il suo tiro da fuori. E non è un caso che a New York, Mark Jackson ci è tornato come uno dei principali candidati ad “Allenatore dell’anno”. I Warriors giocano bene, ogni tipo di acredine all’interno dello spogliatoio sembra essere scomparsa, i suoi giocatori assomigliano a dei soldati, ben allenati, ben disciplinati, con in testa gli insegnamenti del loro allenatore: “Non avevo grandi abilità fisiche e atletiche da giocatore, quindi dovevo pensare, sempre. Dovevo essere sempre più intelligente degli altri, ed era quella l’unica opportunità che avevo. Per questo ho pensato sempre che avrei allenato, per trasmettere questo ai miei ragazzi”.

Cosi come in campo, sulla panchina dei Warriors o in cabina di commento per YES e ABC, la competenza e leadership di Mark Jackson la farà sempre da padrona: (Riguardo al ritorno al Garden) Queste sono cose che sogni da bambino, sono quei momenti che ti fanno dire WOW. Non è allenare una partita che ti emoziona, ma questo pubblico, quest’arena”. E un giorno, chissà, sarà chiamato a far parte di quell’ambiente, di nuovo come ai vecchi tempi.