Dal nostro corrispondente

L’Oklahoma non è terra di pallacanestro. Ci sono i tornado, il petrolio, le praterie e, soprattutto, il (college) football. Anche il college basket ha avuto i suoi momenti di relativo splendore, con il nome di Henry Iba a spiccare su tutti, come head coach di Oklahoma A&M/State per ben 36 anni, tra gli anni ’30 e gli anni ‘60. 36 lunghi anni trascorsi in panchina che l’hanno fatto passare alla storia come uno degli allenatori più duri ed esigenti della storia dello sport americano. Parlando invece di ere più recenti, è Blake Griffin – che ha giocato ad Oklahoma – quello che può essere considerato come il talento più cristallino sfornato dagli atenei statali.

Durant (#35) e Collison (#4), qui assieme a Westbrook (#0) e Sefolosha (#2), sono gli unici due ex-Sonics (Foto Getty Images)

Ma da queste parti di franchigie cestistiche professionistiche, fino a pochi, pochissimi anni fa non se ne erano mai viste. Ad Oklahoma City si sono rifugiati a metà dello scorso decennio i New Orleans Hornets, che feriti da quella immane tragedia naturale di nome Katrina hanno chiesto, ed ottenuto, rifugio alla capitale dello stato. Quell’esperienza è stata breve e volutamente provvisoria, ma accolta in maniera talmente entusiasta dalla gente locale da non passare inosservata agli occhi di David Stern e degli altri vertici della NBA. Nell’estate 2008, infatti, i Seattle Sonics si sono smaterializzati nel nulla, per riapparire più o meno magicamente in mezzo a quell’area geografica completamente piatta chiamata Great Plains. Merito anche di Clay Bennett, businessman locale che pochi anni prima comprò gli allora Sonics dal discusso proprietario e magnate di Starbucks, Howard Schultz e, approfittando dei problemi sorti sull’impianto cittadino in cui la squadra giocava (la KeyArena), fu capace di ottenere il trasferimento ad Oklahoma City, e di rinominare la franchigia “Thunder”.

I primi tempi sono stati ovviamente caratterizzati da stenti e sconfitte, oltre che da numerose incertezze legate alla dubbia convenienza di esportare un club professionistico in una località così piccola ed apparentemente insignificante. Ma dal lontano Pacific Northwest il club si è portato appresso anche quello che ora è considerato come il maggior candidato al titolo di MVP di questa stagione: Kevin Durant. Uno dei soli due giocatori rimasti in roster dai tempi dell’era-Seattle – l’altro è Nick Collison – Durant è cresciuto stagione dopo stagione, e con lui tutta la squadra si è evoluta via via fino a diventare la corazzata di oggi, che sembra finalmente pronta a vincere ciò per cui è stata progettata e costruita con tanta genialità dal general manager del club. Che si chiama Sam Presti, ed è da considerare come l’artefice principale della sfavillante situazione in cui i Thunder si trovano attualmente – anche più del fenomeno Durant.

Nonostante la giovane età Sam Presti, GM di Oklahoma City, è già considerato come uno dei migliori dirigenti dell’intera NBA (Foto AP)

Il management della squadra, capitanato appunto da Presti, è riuscito a svolgere un lavoro impeccabile, puntando su un allenatore giovane ed inizialmente sconosciuto ed inserendo gradualmente nel roster gli individui che ora formano la squadra che punta a chiudere la stagione regolare con il miglior record NBA. Cosa non facile, vista l’agguerrita concorrenza di Chicago, Miami e San Antonio, ma di fondamentale importanza in vista dei playoffs e dell’eventuale conquista del fattore campo, considerando che i Thunder possono contare sul pubblico nettamente più caldo e rumoroso dell’America cestistica. Più che di un impianto NBA, la Chesapeake Energy Arena (l’ex Ford Center) assomiglia più ad una palestra collegiale, tanto è l’entusiasmo ed il rumore che i tifosi locali riescono a produrre. Di certo, un’atmosfera completamente diversa rispetto a quella presente in tanti, troppi palazzetti della nazione, dove l’attaccamento ai propri colori è prossimo allo zero, e alla partita ci si va più che altro per mettersi in mostra (le cosmopolite Miami e Los Angeles come lampante esempio), o non ci si va proprio (come nelle più modeste Charlotte e Detroit di turno).

Anche per questo motivo sarà per tutti un vero e proprio incubo doversi recare ad Oklahoma City per giocarsi il passaggio del turno nella ormai imminente post-season. E se l’entusiasmo in città è dilagante, un motivo, o – meglio – dei motivi, ci saranno.

La squadra, come dicevamo, è forte, fortissima. E sembra che sia finalmente consapevole di tale forza, vista la scioltezza e disinvoltura con cui ha recentemente affrontato tra le mura amiche quelle che sono le due padrone della Eastern Conference, Miami e Chicago. I Thunder hanno letteralmente spazzato via entrambe con un margine totale di +30 punti, che tuttavia non rende bene l’idea della maniera in cui gli uomini di coach Scott Brooks hanno dominato entrambi gli avversari. Due vittorie che tra l’altro sono state intervallate nel giro di pochi giorni dalle vittorie esterne sui non facili campi di Trail Blazers e Lakers. A questa striscia vincente di 6 partite sono poi seguite 3 sconfitte – che hanno permesso a San Antonio di prendersi la vetta provvisoria della Western Conference – che tuttavia non possono macchiare ciò che i Thunder hanno dimostrato fino ad ora.

Scott Brooks sta guidando i suoi Thunder ad un’altra, grande stagione (Foto Bryan Terry/The Oklahoman)

Prima di analizzare i protagonisti che scendono in campo, è doveroso spendere qualche parola sull’allenatore, Scott Brooks. Dopo una discreta carriera passata giocando sui campi di CBA, NBA ed ABA, è proprio in quest’ultima che comincia la sua esperienza in panchina, inizialmente con compiti minori. Brooks passa per Sacramento e Denver, prima di stabilirsi ad Oklahoma City dove inizialmente funge da assistente di PJ Carlesimo. Ma i primi tempi successivi all’arrivo in Oklahoma sono duri, e Carlesimo è il primo a pagarne le conseguenze. Nel novembre 2008, infatti, l’ex nemico di Latrell Sprewell viene esonerato, ed è proprio Brooks a prendere il suo posto in panchina. Da lì, è cominciata la sua ascesa, che ancora non si è fermata e che già gli ha regalato il premio di Coach of the Year della stagione 2009/2010. A lui vanno dunque gran parte dei meriti per essere riuscito ad orchestrare al meglio una squadra giovanissima e, per questo, non facile da gestire.

Kevin Durant è ovviamente il leader di questa squadra. Già due volte capocannoniere della lega, sta disputando un’altra superlativa stagione, in cui il suo gioco appare più completo e “totale”. Questo perché al solito, ormai scontato trentello – siamo a poco meno di 28 punti di media – sta aggiungendo un ottimo contributo sia a rimbalzo, essendo il leader di squadra con 8.20 carambole a partita (1.5 in più rispetto allo scorso anno), sia come assistman, con 3.5 a sera – entrambi massimi in carriera – oltre che una dedizione difensiva che negli anni scorsi non si era mai vista. Un ampliamento di repertorio, soprattutto in attacco, sollecitato in estate anche da coach Brooks: “Abbiamo visto dei grossi miglioramenti durante gli ultimi playoffs, – afferma l’allenatore – Ma nonostante questo, vogliamo vedere il suo gioco espandersi ulteriormente”. Soffermandosi sull’arsenale prettamente offensivo, nelle idee di Brooks e Presti è Dirk Nowitzki il modello a cui Durant dovrebbe ispirarsi. Una cosa di cui egli stesso è consapevole: “Abbiamo affrontato Dallas tante volte la scorsa stagione, e mi sono reso conto come l’aggiunta di quel tiro potrebbe essere decisiva per me – sostiene il #35 riferendosi al famoso step-back jumper, marchio di fabbrico del tedesco – Magari non sono così potente come Dirk, ma di certo ho la sua lunghezza; è un tiro molto difficile da perfezionare, ma ci sto lavorando duramente”. Anche riguardo all’aggressività del suo gioco, Durant non si tira indietro: “Alle volte durante la scorsa stagione finivo per innervosirmi quando giocavo in maniera troppo fisica, – continua – Non volevo rischiare di commettere inutili falli offensivi e ritrovarmi per questo fuori dalla partita. Ma ora sto notando che va bene giocare duro, che va bene spingere gli avversari ed aggredire la partita”.

La coppia delle meraviglie Westbrook-Durant (Foto Nathaniel S. Butler/NBAE/Getty Images)

Non si può parlare di talento e di completezza tecnica senza inserire nel discorso Russell Westbrook. Uscito in malo modo dall’ultima finale di conference, dopo la quale era stato bersagliato da critiche più o meno velate riguardo al suo eccessivo egocentrismo e la sua presunta, non facile coesistenza con Durant, in estate si era parlato addirittura di una sua possibile partenza. Westbrook, per fortuna di Brooks, è rimasto ad Oklahoma City ed è nel frattempo riuscito a maturare tantissimo, dimostrando innanzitutto un’attitudine diversa. Dai 21.9 punti a partita della scorsa stagione è passato ai 24.5 attuali, e le percentuali dal campo sono notevolmente migliorate (dal 44% al quasi 48%). L’esplosività che lo fa regolarmente decollare verso il canestro – spesso “posterizzando” i malcapitati lunghi avversari, chiedere ad Omer Asik per una fresca conferma – è rimasta intatta, affiancata ora da una maggiore precisione dal tiro dalla media distanza. E se pensiamo allo straordinario fatto che Westbrook nella sua carriera non abbia mai saltato nessuna partita – né alla high school, né al college, né tantomeno tra i pro – ci rendiamo conto di quanto speciale sia il giocatore in questione.

Eppure non ci sono solo Westbrook e Durant. Il supporting cast attorno al magico duo sta salendo in maniera altrettanto convincente di livello. A partire dai due lunghi titolari, Serge Ibaka e Kendrick Perkins, che costituiscono ad oggi una delle coppie interne più dure ed efficaci della lega. Il congolese sta dispensando stoppate come se fossero volantini, ed è nettamente il miglior stoppatore NBA, capace di raggiungere già tre volte in stagione la doppia cifra in una singola partita, un dato, questo, davvero stupefacente. Perkins, dopo l’inaspettato trasferimento della scorsa stagione — e nonostante i tanti, troppi falli tecnici di cui si è reso protagonista — si è finalmente ambientato nel nuovo gruppo ed è ora una delle voci più ascoltate all’interno dello spogliatoio, vista anche la sua già notevole esperienza ad alti livelli (due finali con Boston alle spalle). Una coppia molto affiatata, ed elogiata pubblicamente da Durant: “Sono due lunghi che non hanno bisogno della palla in mano per segnare, – ha detto KD – Vanno benissimo a rimbalzo offensivo, si fanno valere in area… Così, tutto è più facile anche per me”.

Ma se si vuole individuare il giocatore che forse più di tutti riesce a mandare in visibilio il pubblico della Chesapeake Energy Arena, bisogna fare il nome di James Harden. Personaggio in grado come nessun altro di evocare tempi ormai andati, è capace di portare in campo uscendo dalla panchina non solo il suo inconfondibile stile – barba e linguaggio del corpo sanno tanto di streetball newyorkese anni ’70 – ma anche 17 punti a partita, che lo pongono in chiaro vantaggio su tutti nella corsa al trofeo di “Sesto Uomo dell’Anno”.

Derek Fisher, qui di spalle assieme a James Harden, è arrivato in Oklahoma a stagione in corso (Foto AP/Sue Ogrocki)

Una panchina, quella dei Thunder, che si è da poco rafforzata ulteriormente grazie al pregiato innesto di Derek Fisher che, dopo essere stato lasciato libero dai Rockets che lo avevano appena acquisito dai Lakers, ha subito preso la via dell’Oklahoma. Un’aggiunta suggerita anche dalla perdita dopo sole 9 partite di Eric Maynor, point guard di riserva, ora fuori per tutta la stagione a causa della rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio destro. “Derek ha una notevole sicurezza in se stesso, un altissimo quoziente intellettivo e grande abilità ed esperienza su entrambi i lati del campo” spiega il GM Presti, interrogato sulle ragioni che lo hanno spinto ad ingaggiare l’ex compagno di tante battaglie di Kobe Bryant. “Conosce perfettamente questa lega; è un ottimo tiratore e crediamo sia un giocatore in grado di potere lasciare il segno sotto tanti aspetti”. Concetti ribaditi anche da coach Brooks: “E’ un vincente nato, lo dice chiaramente il suo DNA, ed è fondamentale avere questo tipo di giocatori in spogliatoio”. L’aggiunta di un giocatore così esperto ed abituato a vincere è, sulla carta, sicuramente incoraggiante per una formazione giovane ed in rampa di lancio come Oklahoma City. Fisher però già da inizio stagione sta tirando malissimo dal campo (23% da tre, poco più del 24% in totale), e se non riuscirà a correggere la mira in vista dei playoffs, difficilmente la sua sola saggezza riuscirà ad essere davvero d’aiuto per i Thunder.

L’innesto dell’ex #2 di Los Angeles appare chiaramente come una mossa volta a portare dei benefici immediati, e a fornire quel qualcosa in più che potrebbe rivelarsi decisivo in serie di playoffs contro avversarie esperte e scafate come San Antonio e Dallas. Eppure, nonostante la giovanissima età media della squadra, il gruppo attuale potrebbe non avere vita molto lunga. Il management, infatti, dovrà presto fare i conti con una situazione salariale ad alto rischio implosione. Le recenti estensioni di contratto al massimo salariale di Durant e Westbrook, se da un lato rappresentano una gran bella notizia per tutto l’ambiente, dall’altro vincolano pesantemente il monte stipendi. Ciò significa che in un futuro non così lontano sarà tutt’altro che scontato riuscire a trattenere giocatori come Harden e Ibaka, i cui modesti contratti firmati da rookie scadranno a fine 2013/14, e che pretenderanno (e meriteranno) dollari e attenzioni che difficilmente il GM Presti sarà in grado di garantir loro.

Non bastò questa indelebile schiacciata di Kevin Durant su Brendan Haywood a permettere ai Thunder di arrivare in finale lo scorso anno (Foto Bryan Terry/The Oklahoman)

Anche per questi ultimi motivi, tutto già sembra pronto per una convinta – e convincente – scalata al trono NBA, nonostante la concorrenza ad Ovest degli Spurs si sia fatta nel frattempo sempre più minacciosa. I texani, dalla loro, possono ovviamente contare su di un enorme vantaggio in termini di esperienza, che secondo molti ancora costituisce il maggior punto debole dei Thunder. Vale però la pena ricordare che le uscite di scena dalle ultime due edizioni dei playoffs – contro Lakers e Mavericks, entrambi poi futuri campioni – potranno ora rivelarsi preziosissime per Brooks e i suoi uomini, nel caso riuscissero a far tesoro di tali sconfitte. Sarà in ogni caso essenziale che Durant e Westbrook – e quest’ultimo in particolare – continuino a giocare pensando in primo luogo al bene della squadra, senza lasciarsi andare in individualismi che si rivelerebbero negativamente decisivi per i destini della squadra.

Giunti a questo punto, Oklahoma City può far tornare alla mente un’altra squadra che, poco più di un decennio fa, riuscì a spopolare in tutta America (e non solo) grazie al suo talento. Ci riferiamo ai Sacramento Kings di Webber, Divac e Stojakovic. Pur essendo due formazioni costruite con caratteristiche tecniche e di gioco ben diverse, rimane da sottolineare come anche in quel caso il GM, Geoff Petrie, riuscì a creare praticamente dal nulla – in un ambiente totalmente privo di background cestistico, e attraverso sapienti mosse di mercato e lungimiranti scelte al draft – una formazione capace di esprimere in campo un gioco incredibilmente spettacolare, e che al pari di questi Thunder suscitò l’ammirazione di gran parte del pubblico. Sacramento, come Oklahoma City, era ed è una città di provincia, in cui l’amore locale per la squadra si era trasformato in una sorta di follia collettiva. L’ARCO Arena era per tutti “The Gas Station”, in cui ad ogni tiro dal gomito di Chris Webber e ad ogni saluto alla moglie di Doug Christie il chiasso era letteralmente infernale. Un po’ come accade ora in downtown Oklahoma City nel momento in cui Westbrook veleggia nel pitturato e Ibaka spedisce il pallone in tribuna stampa.

I tifosi si augurano è che i Thunder di oggi non finiscano per ripercorrere in tutto e per tutto le orme dei Kings di ieri, incapaci di superare – per colpa loro, o di altri – quell’insormontabile ostacolo di nome Los Angeles Lakers. Non si vedono comunque al momento avversarie degne di tale paragone con quella formazione quasi invincibile di Shaquille O’Neal e del giovane Bryant. Perciò l’impressione è che i tempi possano essere veramente maturi per riuscire in un’impresa che manderebbe gli Oklahoma City Thunder tra gli immortali dello stato. Il quale, lo ripetiamo, non è terra di pallacanestro. Ma che, grazie alle imprese dei suoi amati ragazzi, con questo sport ci sta prendendo un dannato gusto.