Dwyane Wade, LeBron James e Chris Bosh (Photo Reuters-Mike Segar)

Dwyane Wade, LeBron James e Chris Bosh (Photo Reuters-Mike Segar)

La stagione. Rivincere è sempre più difficile che vincere. Gli avversari ti conoscono meglio e le motivazioni possono essere un po’ attenuate dal primo successo. Ma gli Heat sono riusciti nel “repeat”, dimostrando di aver acquisito un’enorme dose di sicurezza e di fiducia nei propri mezzi dal campionato scorso. Sin dall’inizio. Anche se i giri del motore li hanno aumentati e portati al massimo solo col passare delle partite. 66 vittorie, dominio della Southeast Division conquistata con ben 22 lunghezze di vantaggio su Atlanta e un primato della Eastern Conference messo in cassaforte, complici le incertezze sul lungo periodo dei Knicks, con largo anticipo. Pur con qualche difficoltà in termini di energia a metà stagione, le prove di forza non sono mancate, il picco è arrivato quando da una serata in apparenza normale, il 3 febbraio scorso, con Toronto sbancata grazie all’allungo firmato James e Bosh negli ultimi 5’ e spiccioli, è partita una serie positiva che si è conclusa solo il 27 marzo a Chicago. Quasi due mesi di imbattibilità, con tanta voglia di dimostrare di essere forti e non accettare di fare un passo indietro, neanche episodico, tanto che la caduta sul parquet dei Bulls, nonostante le apparenze e le dichiarazioni di distacco, non è stata ben digerita. 27 vittorie in fila resteranno comunque nella storia come la seconda striscia positiva più lunga di sempre, a 6 successi dal record all-time dei Lakers 1971-72. E la cattiveria agonistica ulteriormente acquisita ha dato una spinta enorme ad una squadra capace di vincere 37 delle ultime 40 partite di regular season (una sconfitta al mese a febbraio, marzo ed aprile). E continuare sulla stessa scia anche nel 1° turno di playoffs, quando i malcapitati Bucks sono stati spazzati via in sole 4 partite. La corsa verso il secondo anello consecutivo è diventata più impervia contro l’orgogliosa Chicago, che si è arresa per via di una coperta diventata cortissima per gli infortuni, e soprattutto contro i Pacers, che si annunciano come la vera forza emergente dell’est. Indiana, sfruttando l’astro nascente di Paul George e l’impatto sotto canestro di Hibbert e West, ha capitalizzato al meglio sui limiti degli Heat che, dopo aver perso le tre gare pari, sono usciti indenni solo a gara7. Dimostrando di essere semplicemente più forti. Anche delle loro lacune. E lo stesso hanno fatto in finale, con una notevole tenuta nervosa, la capacità di tanti giocatori di dare almeno un contributo, l’eccellente gestione di coach Spoelstra che ormai ha acquisito una credibilità importante, un Wade uscito alla distanza, un Bosh diventato soprattutto rimbalzista e difensore, il tiro da tre di Ray Allen in gara6 che ha salvato una serie che stava sfuggendo, le triple di Miller e – alla fine – di Battier, i lampi di Chalmers. Ma soprattutto il dominio di LeBron James, per la seconda volta campione e, dopo aver vinto il premio di Mvp della regular season (per la quarta volta in carriera), miglior giocatore anche della Finale.

Canestro vincente di LeBron James allo scadere di gara1 contro Indiana (Photo by Mike Ehrmann/Getty Images)

Canestro vincente di LeBron James allo scadere di gara1 contro Indiana (Photo by Mike Ehrmann/Getty Images)

MVP. Non ci possono essere dubbi. LeBron James è il nome obbligato, al termine di un’altra stagione stratosferica, con dimostrazioni di strapotenza e dominio assoluto che fanno passare in secondo piano anche compagni di alto livello come Wade e Bosh. In una squadra che corre solo quando può (23ª per numero di possessi), si è esaltato soprattutto giocando da ala forte in un quintetto di esterni puri da rifornire per colpire da fuori e sempre utili ad allargare il campo per le sue penetrazioni. Strepitosa macchina da guerra quando può attaccare il ferro, 26.8 punti, 8.0 rimbalzi e 7.3 assist tirando con un impressionante 56.5% dal campo in regular season (sceso ad un comunque rispettabile 49.1% nei playoffs), 7 triple-doppie (di cui 2 contro San Antonio) stagionali, in finale ha iniziato piano prima di finire a 25.3+10.9+7.9, dando ancora in qualche (rara) occasione l’impressione di non essere il giocatore mentalmente più forte in assoluto, ma dimostrando di essere diventato sempre più completo, insaccando con continuità in gara7 (37 punti e 12 rimbalzi) quel tiro in sospensione, a lungo ricercato in carriera, che gli Spurs avevano scelto di concedergli. Ha dominato, in una corsa playoffs più complessa dell’anno scorso, in una serie finale bellissima chiusa con una delle migliori gare7 di sempre. E questo non farà altro che fortificare la sua leggenda.

La sorpresa. Senza molti dubbi, Chris Andersen. Il “Birdman”, dai margini della NBA è stato bravo a cogliere la miglior occasione che potesse capitargli per tornare in scena, in una squadra fortissima, ma con una lacuna chiara nelle rotazioni dei centri. Da buon giocatore quale ha dimostrato di essere negli anni migliori della carriera, ha fatto il lavoro sporco, difeso, preso rimbalzi e soprattutto dato una fondamentale scarica di energia in uscita dalla panchina. Nei playoffs ha vissuto ottimi momenti anche in attacco e soprattutto nella serie contro i Pacers la sua presenza è stata davvero preziosa.

La delusione. Rashard Lewis poteva essere un’aggiunta di qualità dalla panchina, un elemento in grado di spostare qualche equilibrio con un talento certamente indiscutibile. Ma non è mai riuscito a trovare la propria dimensione, finendo praticamente con le cifre più basse in carriera (5.2 punti in 14’ in regular season) e soprattutto nella “cuccia” di coach Spoelstra nei playoffs.

Mario Chalmers ed Erik Spoelstra

Mario Chalmers ed Erik Spoelstra

Prospettive future. In occasione di una ricchissima celebrazione, James e Wade hanno già fatto capire di voler provare a centrare il “three-peat”, pur sapendo quanto sia difficile e quante poche volte sia capitato in passato (solo Celtics, Bulls e Lakers). Non c’è riuscito ai tempi dei Lakers dello Showtime neanche il presidente Pat Riley, che, pur associando LeBron a Magic (5 titoli vinti ma mai 3 in fila), ha riconosciuto tutta la complessità di una simile impresa. Anche perché la squadra non ha spazio per muoversi sul mercato dei free agent e al draft è riuscita ad entrare solo con una trade che ha mandato ad Atlanta una futura seconda scelta in cambio dei diritti su James Ennis, ala da Long Beach State, chiamato al numero 50. Può lavorare con la mini mid-level exception da 3.1 milioni, potrebbe usarla per trattenere un Chris Andersen che ha detto di voler assolutamente restare, gridando “andiamo per il three-peat l’anno prossimo!” alla folla accorsa festante alla parata per le strade di Miami. Ma vale la pena spenderla per un 35enne con una storia tormentata e problemi ad un ginocchio? Esercitata, come prevedibile, l’opzione sull’ultimo anno di contratto di Chalmers, tornerà anche Ray Allen che – al pari di Rashard Lewis e James Jones – ha fatto scattare la “player option”. Per smuovere la situazione e iniziare a ringiovanire, non è escluso il sacrificio di Mike Miller, ma non è un elemento facilmente scambiabile con 2 anni e 12 milioni rimasti sul contratto. La situazione potrebbe addirittura portare, secondo qualcuno, ad una rottura dei “Big Three”, complici le regole sempre più stringenti sul salary cap, con la (difficile) cessione di Bosh. In ogni caso, con Wade che lavorerà per rinforzare le gambe ed essere ancora in condizioni migliori, si ripartirà da LeBron James. Ed è comunque un bel punto di partenza…