Pellegrinaggio nella terra del basket più bello e feroce, conoscendo luoghi e racconti legati a campioni che hanno fatto la storia della pallacanestro italiana, europea e mondiale.
Cosa spinge tre ragazzi a percorrere 3.817 chilometri, attraversando i Balcani, su una scassata Peugeot 106 color verde sbiadito? Tanta voglia di avventura e un libro, “La Jugoslavia, il basket e un telecronista”, scritto da Sergio Tavcar, storico telecronista di Telecapodistria. L’opera di Tavcar non narra solamente le gesta di tutti i grandi campioni che hanno reso leggendario il basket jugoslavo, ma descrive anche le differenze tra i popoli e le anime che hanno composto quel pezzo di terra che negli anni ’90 è stato teatro di una guerra fratricida.
Il viaggio non poteva che iniziare da Tavcar, nostro Virgilio. Per incontrarlo siamo andati ad Opicina, popolosa borgata sul Carso, frazione del comune di Trieste, dove risiede la minoranza slovena in Italia. Gli comunichiamo il percorso che abbiamo intenzione di percorrere: toccheremo sia le capitali Lubiana, Zagabria, Sarajevo e Belgrado, sia le zone più remote della Bosnia fino a giungere in Kosovo, territorio conteso tra Serbia e Albania. Tavcar ci guarda stupito e declama un vecchio detto sloveno: “In Kosovo non ci si va nemmeno in spalla a Dio”. Il personaggio è schietto, ruvido, ma mai spigoloso, e con un po’ di teatralità ci racconta quali tipologie di personalità incontreremo: “Gli sloveni sono tirchi, introversi, pessimisti e gran lavoratori. I croati hanno una grandissima dignità nazionale al limite del nazionalismo e sanno essere cattivi come tutti i popoli che hanno espresso soldati di grande levatura. I serbi sono oppressi da un immenso complesso di superiorità, si sentono il popolo eletto dei Balcani, per cui sono strafottenti di natura. I bosniaci sono sempre più musulmani, come del resto la Serbia meridionale. Non scorderò mai uno
striscione che vidi esposto nella finale degli Europei del 2001 tra i padroni di casa della Turchia e la Jugoslavia di Bodiroga e Stojakovic. Recitava così: “Vai, Mirsad, che tutta Novi Pazar è con te!”. Il destinatario era Mirsad Jahivic, nato nel capoluogo del Sangiaccato, una regione della Serbia, prima di trasferirsi da bambino in Turchia cambiando cognome in Turkcan…”. Quando informiamo Tavcar che andremo ad onorare il monumento a Mirza Delibasic a Sarajevo, riceviamo la sua laica benedizione. Delibasic è considerato dal giornalista di Telecapodistria il più grande giocatore jugoslavo di tutti i tempi dopo il “sommo” Kresimir Cosic. E Drazen Petrovic? Il Mozart dei canestri si accomoda sul terzo gradino del podio.
Dopo esserci abbeverati alla fonte di conoscenza di Tavcar, il nostro viaggio riprende in direzione di Lubiana. La città è meta di un turismo in costante crescita, grazie al fatto che la Slovenia è stato il paese meno colpito dalla guerra, oltre ad essere stato il primo territorio della ex Jugoslavia ad entrare nell’Unione Europea. La vivacità di Lubiana deriva anche dalla presenza di numerosi giovani (un settimo della popolazione della città è composto da studenti universitari) che agganciano le lor vecchie scarpe ai fili elettrici, facendole rimanere
appese per lo stupore dei turisti. Dopo aver ammirato il caratteristico triplo ponte e il castello che domina il centro storico, ci dirigiamo verso la Stožice Arena: ad attenderci ci sarà Matej Bergant, addetto stampa dell’Olimpija. L’arena è stata costruita nel 2010 e dall’esterno assomiglia ad un’enorme conchiglia, un’opera architettonica bellissima. La gentilezza e la disponibilità di Bergant è disarmante: ci accompagna a vedere tutti i luoghi attorno ai quali gravita il mondo dell’Olimpija: spogliatoi, palestra per gli allenamenti, sala pesi, uffici, salette VIP. La società, però, non sta attraversando un buon momento dal punto di vista economico, e in estate ha rischiato di fallire. Non è presente una zona col merchandising e stanno riallestendo la bacheca con i trofei conquistati in quasi 70 anni di storia. L’Olimpija è una sorta di piccola nazionale slovena, poiché quasi tutti i campioni di questo Stato da due milioni di abitanti sono transitati di qua prima di emigrare all’estero alla ricerca di ricchezza e successo. Attualmente il club fa costantemente incetta di titoli nel campionato nazionale, ma in ABA Liga (la Lega Adriatica, che riunisce le più forti formazioni dell’ex Jugoslavia) non riesce mai ad imporsi, ad eccezione della stagione 2001/02. Su nostra richiesta Bergant ci accompagna allo storico palazzetto dell’Hala Tivoli, situato nell’omonimo
parco cittadino. Si tratta di un piccolo hangar da 5.500 posti e Matej, sapendo che siamo italiani, ci ricorda che qui, nel 2001, stava per cadere la Virtus Bologna del grande slam guidata da Ginobili. Matej punzecchia: “Se non ci fosse mancato l’infortunato Kovacic sarebbe finita diversamente, Griffith non avrebbe fatto quello che voleva sotto canestro”. Sorrisi e strette di mano, dobbiamo cambiare meta e Paese.
Giunti a Zagabria notiamo subito la moltitudine di bandiere croate che ricoprono la città. Il patriottismo di cui ci aveva parlato Tavcar è palpabile, ma questa eccessiva ostentazione sembra denotare un senso malcelato di inferiorità. Anche sul tetto della bella chiesa di San Marco svetta il mosaico con l’immancabile stemma della scacchiera che rappresenta i colori nazionali. Se ami il basket e ti trovi a Zagabria non puoi non andare al Dražen Petrovič Memorial Center. Al suo interno ci sono tutte le coppe e le medaglie vinte dal “diavolo” di Sibenik vestendo le canotte di Sibenka, Cibona, Real Madrid, Portland Trail Blazers e New Jersey Nets. I riconoscimenti ottenuti dal Mozart dei canestri sono tantissimi, eppure non rendono omaggio a sufficienza alla grandezza del primo giocatore europeo che riuscì ad affermarsi in NBA facendo cadere il muro di diffidenza eretto dagli americani verso il Vecchio Continente. La custode del museo è la madre dell’addetto stampa del Cibona Zagabria e così viene naturale organizzare una visita presso la storica società croata che nel 1985 e nel
1986 vinse l’Eurolega, trascinata ovviamente da Drazen. La Petrović Basketball Hall dispone di una cupola centrale di vetro che permette di illuminare il parquet con la luce naturale durante il giorno. “Un modo per risparmiare sulla bolletta della corrente elettrica”, ci dice lo storico team manager Darko Marijanovic. È un personaggio dalle mole e dai baffi imponenti e con grande orgoglio ci mostra i trofei vinti dal Cibona: 18 campionati croati, tre campionati jugoslavi, una Coppa Korac, due Coppe delle Coppe, oltre alle già citate due Coppe dei Campioni. Quando menzioniamo la finale di ABA Liga del 2010, conclusasi con una vittoria sulla sirena dal Partizan grazie ad un tiro da metà campo di Dusan Kecman, il sangue gli ribolle nelle vene ed urla con rabbia che quel canestro era avvenuto a tempo scaduto. Forse cominciamo a capire il senso di subconscia ed eterna sottomissione che provano i croati. Prima di ripartire guardiamo
per l’ultima volta le tre canotte che campeggiano sul tetto: quella di Drazen, quella di Mihovil Nakic e quella di Andrija “Andro” Knego. Il tempo per stare a Zagabria, città triste ma affascinante, è finito. Il nostro pellegrinaggio verso i luoghi di culto della pallacanestro jugoslava prosegue verso la Bosnia Erzegovina . Ci vediamo a Sarajevo…
(il viaggio continua)